di Virginia Woolf
scritto e diretto da Giancarlo Marinelli
con Anna Galiena, Ivana Monti, Fabio Sartor, Romina Mondello, Ruben Rigillo,
Fabrizio Bordignon, Andrea Cavatorta, Giulia Pelliciari
multivisioni Francesco Lopergolo
luci Andrea Grussu
costumi Daniele Gelsi
direttore tecnico Gianluca Cioccolini
produzione esecutiva Luca Palmieri
aiuto regia Giulia Pelliciari
produzione Teatro Ghione e Soni Produzioni
73.mo Ciclo di Spettacoli Classici al Teatro Olimpico di Vicenza
Vicenza, teatro Olimpico, dal 25 settembre al 3 ottobre - Prima nazionale
Se ci si impone un minuto di riflessione il parallelo della storia de “La signora Dalloway”, spettacolo del quale scrivo, confrontato con il tempo che stiamo vivendo, mette i brividi per il parallelo del vissuto, sia di quei personaggi che nostro. Ed è grande cosa l’ averlo messo in scena a più personaggi (ben otto, di questi tempi un record) rispettando il distanziamento legiferato ma dando reale credibilità alle azioni, che non è da sottovalutare. Irrompe tra le statue e le colonne dell’Olimpico la storia romanzata dalla Woolf, tutta narrata in un giorno di giugno del 1923, che Giancarlo Marinelli adatta per il teatro costruendo scene di grande rarefazione, dialoghi che hanno il sapore spesso di un iperrealtà che mescola indecifrabilità e sogno, e coscienza presente, che i personaggi vivono, soffrono. Partendo, come sottoscrive il regista Giancarlo Marinelli dall’impossibilità di portare il testo della Woolf a teatro si assiste invece a una visione profetica di esclusione e autoanalisi della vita stessa, quella quotidiana, macerante, che si assottiglia continuamente. Pone riflessioni, pensieri, speranze e al tempo stesso ripone tutto questo in un baule martoriato, dal quale talvolta escono grida forti, disperate. Annichilite. Sono i ricordi che diventano incubi, fantasmi della mente. L’impianto classico dello spettacolo, del testo, va in una direzione sospesa tra l’onirico e la reale condizione di chi sopravvive in tanto dramma interiore. Siamo in piena poesia. Sullo sfondo c’è la guerra appena dietro l’angolo, che pervade nelle menti, trasfigura, annienta ancora le esistenze. Sembra un sogno, appunto, continuo e ricorrente, che dà ai protagonisti poche possibilità di schiarite, una serie di reazioni vive, contrapposte, ognuno con la meraviglia della parola che si espande. Ma è sempre dramma, fascinoso, ma struggente dramma, inquietudine all’ennesima potenza. Clarissa Dalloway con i suoi amici e compagni di avventura a vario titolo e forme intraprende un lungo cammino di malinconia, dolore, che l’illusione prospettica del luogo ospitante (rappresentazione e realtà) rafforza e in qualche modo anche protegge da ancor più lugubri attacchi alla sua pelle, e a quella di Doris, Peter, Lucrezia, Richard, Septimus, Sir William, Elisabeth. Con l’incubo adorante del personaggio di Peter Walsh, incontro-scontro e ancora incontro. Personaggi sconvolti e complicati, l’un per l’altro, che sottolineano amore, divisione, combattimento e ancor più la forza di uscire, di reagire dalle loro inquietudini, l’una di fronte all’altra. Gli interpreti sono quasi tutti attenti ed esemplari, si muovono in un andirivieni ben congegnato e normalizzato in era Covid, come detto, non tradiscono praticamente mai le emozioni di un debutto importante. Sono attori esperti perlopiù, e gloriosi, con espressioni cangianti, mirabili, che messi alla prova come dei soldati si allineano, pochissime sbavature, nessun movimento sbagliato, non un affastellamento. Ecco allora che il Septimus di Fabrizio Bordignon nel suo stato disastrato e il Richard riflessivo di Ruben Rigillo, ognuno a suo modo e con il suo personaggio, stanno al passo con la comprovata esperienza e la bravura di Anna Galiena (Clarissa Dalloway), Fabio Sartor (convincente Peter Walsh) Ivana Monti (una penetrante Doris Santon). Li segue a ruota, con mistero, il Bradshow di Andrea Cavatorta. Il tutto dando sensibilità ai personaggi e tocchi di piacere agli occhi dello spettatore, in uno spettacolo difficile ma riuscito, che il pubblico omaggia con sentiti applausi. Romina Mondello e Giulia Pelliciari, Lucrezia ed Elisabeth, appaiono invece più sommesse, mentre tutti si muovono felpatamente sul quel palco, quasi a non voler disturbare. Anche perché nello spettacolo passano quadri da cornice prestigiosa, come alcuni incontri-scontri verbali, d’impatto lieve ma emozionante. L’uso dei microfoni dà qualche problema iniziale, poi si risolve anche se il riverbero a volte torna e talvolta non aiuta. Di sicuro è una sfida vinta, in un momento storico complicato, e questo non è certo poco. E gli enigmi della mente continuano, si sfidano sempre. I ricordi pervadono le anime, mutano, dolci e sconquassanti.
Francesco Bettin