di Carlo Goldoni
drammaturgia di Piermario Vescovo
regia di Paolo Valerio
con Franco Branciaroli
e con Piergiorgio Fasolo, Alessandro Albertin, Maria Grazia Plos, Ester Galazzi, Riccardo Maranzana, Valentina Violo, Emanuele Fortunati, Andrea Germani, Roberta Colacino
in collaborazione con i Piccoli di Podrecca
scene Marta Crisolini Malatesta
costumi Stefano Nicolao
musiche Antonio Di Pofi
luci Gigi Saccomandi
movimenti di scena Monica Codena
produzione Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Teatro de gli Incamminati, Centro Teatrale Bresciano
Trieste, Politeama Rossetti dal 2 al 6 ottobre 2024
Ma quanto divertimento è ancora racchiuso nei testi goldoniani! Sono uno scrigno di leggerezza, arguzia e ironia, nonostante siano antichi di oltre due secoli. Il veneziano poi possiede una teatralità icastica, nutrita di epiteti ed espressioni gnomiche che muovono naturalmente al riso, al buonumore e trasmettono un senso forte di praticità, di aderenza al reale. Il regista Paolo Valerio ne ha colto con sguardo fine e delicato tale disarmante attualità mettendo in scena un testo della maturità di Goldoni come “Sior Todero Brontolon”. Ad inaugurare, infatti, la stagione di prosa del Teatro Stabile del Friuli Venezia-Giulia è uno spettacolo filologico, rispettoso delle sfumature espressive dei personaggi, che coniuga una visionaria messinscena in costume con il mondo fatato delle marionette di Podrecca. L’intuizione fortunata colta da Valerio è suggerita dalla famosa biografia “francese” del commediografo, nel punto in cui tratta della sua primissima infanzia. Nei Mémoires, infatti, si legge: “Mia madre prese cura di educarmi, e il mio genitore di divertirmi. Fece fabbricare un teatro di marionette, le maneggiava in persona con tre o quattro suoi amici, e in età di quattr’anni trovai esser questo un delizioso divertimento”. Nell’allestimento allora è lo stesso Todero che viene proposto nella versione di Grande Burattinaio anzi Marionettista di intrecci e macchinazioni, quasi sempre seduto su una curiosa poltrona bianca incorniciata da morbidi pupazzi. Lo impersona con piglio bofonchiante e perennemente contrariato un magistrale Franco Branciaroli, a capo di una famiglia-succube che rappresenta da generazioni spettacoli di marionette a Venezia. La scenografia (firmata da Marta Crisolini Malatesta) rimanda appunto a una casa-magazzino di fili, braccia, gambe, quinte, fondali, graticci che sorprende per l’effetto di teatro nel teatro. Gli stessi attori si ritrovano manovratori dei loro personaggi in miniatura, in un corto circuito con il proprio alter ego che fanno saltellare nell’aria per trasmettere emozioni. All’originale aspetto visivo dell’intreccio aggiungono la particolare cura per la propria espressività, quasi tanti idioletti creati da Goldoni, a dar vita ad una partitura complessa, verisimile e sfaccettata di battute. Il cast, ben amalgamato, sfodera una grande e contagiosa vivacità. Emergono, nel disegno goldoniano, le figure salvifiche femminili: in primis la Marcolina di Maria Grazia Plos, energica e volitiva come Mirandolina, rancorosa e insieme astuta, in lotta armata col suocero e il marito Pellegrin “sempio” di Piergiorgio Fasolo. Il suo intento è quello di “destrigar la putta” ossia far maritare la figlia Zanetta (Roberta Colacino). Le tiene bordone la risoluta siora Fortunata (Ester Galazzi), determinata anch’essa nell’obiettivo di far scegliere come giovane sposo suo cugino Meneghetto (Emanuele Fortunati), esperto di parola e di creanza, raggirando così le volontà del Paron Brontolon. Questi, infatti, vorrebbe “logar la nevoda” con Nicoletto (Andrea Germani), figlio svampito del fattore Desiderio (Riccardo Maranzana), per risparmiare sulla dote. La débacle di Todero nel finale è totale: affermava lo stesso Goldoni ne “L’autore a chi legge”, “quale maggior disgrazia per un uomo, che rendersi l’odio del pubblico, il flagello della famiglia, il ridicolo della servitù?”, stupendosi per la negatività del suo personaggio che purtroppo non era affatto immaginario. E Branciaroli ne dà un saggio esemplare per molestia e presunzione, inverandolo con “un taroccare” tanto “fastidioso e insolente” da far sorridere sin dai primi cenni. Elena Pousché