L'intervista, avvenuta il 1 marzo 2019, introduce l'articolo che le rimanda spesso al suo interno.
Meglio la fotografia o il video?
Il video non sostituisce lo spettacolo, visto che spesso le riprese sono fatte con una sola camera fissa facendo dei totali. O si fa una ripresa con minimo tre camere altrimenti non serve, o meglio può servire a una compagnia solo nel caso lo spettacolo venga ripreso. Il video quando viene fatto è solo per documentazione interna. Invece anche una sola fotografia può restituire lo spettacolo. Una foto può essere guardata e riguardata, la puoi studiare quanto vuoi.
Nel tuo nuovo modo di fotografare il teatro, quello che definisci come "fotografia dinamica", c'è stato l'influsso del nuovo teatro? Il teatro delle cantine? Fotografare teatro tradizionale, ad esempio Lavia1 o teatro contemporaneo è la stessa cosa?
Sì, è la stessa cosa. Preciso che la scoperta di un nuovo tipo di fotografia teatrale è avvenuto quasi per caso, per una mia esigenza. Comunque si, in quell'epoca avevo più facilità di accesso a quei tipi di spettacoli e la mia concezione della fotografia era più simile al nuovo teatro. Erano spettacoli secondo me straordinari, con un sacco di invenzioni. sempre poca luce però! Ma erano più aderenti al tipo di fotografia che io volevo fare perché erano più moderni, più fascinosi, non erano i soliti Pirandello, Shakespeare, Molière, erano molto più espressivi.
E il fatto che fossero in spazi diversi? Spesso senza palco?
Questo facilitava tantissimo. Io amo moltissimo i teatri senza palcoscenico, dove c'è il contatto diretto con l'attore. Non c'era nemmeno l'esigenza di partecipare alle prove perché appunto gli attori erano là, nel non-palcoscenico.
Ma è stata questa esperienza che ti ha spinto a portare una nuova modalità di fotografare anche nel teatro più tradizionale? Cioè a contatto con gli attori?
Si certo, ma lo faccio quando mi è possibile, non sempre si può. Quando si fanno le fotografie di solito è un momento molto delicato, quasi sempre è la prova generale, quando ci sono tensioni, ripensamenti, "smadonnamenti" da parte del regista. Quando posso lo faccio, io amo molto gli attori, le espressioni degli attori. Una volta che ho fatto le fotografie che servono per le luci, i costumi, le scene, mi concentro sugli attori. Quando posso mi avvicino oppure mi avvicino con un teleobiettivo.
Cosa ne pensi dell'imposizione di Strehler al fotografo che doveva mettersi nel punto preciso della platea dove c'era lui e fotografare solo da li?
Ci sono due concezioni. Una è quella del regista che vuole solo i totali, per fare vedere la scena, i costumi: al regista interessa poco l'attore, interessa la costruzione dello spettacolo. Infatti nelle fotografie del Piccolo ci sono sempre dei totali, non c'è mai l'attore singolo, perché Strehler pretendeva questo.
Lo ha imposto sia a Mulas2 sia al successore?
Si, Mulas ha fatto poche fotografie di scena, purtroppo, perché poi si è dedicato a foto d'arte. Era un genio assoluto, ho visto delle cose straordinarie. Mulas è stato un innovatore della foto di scena perché faceva foto non posate. Comunque Strehler non è l'unico, sono tutti i registi a volere solo i totali, cioè dalla prospettiva dello spettatore. Anche Lavia, con cui mi scontro ogni volta che fotografo uno spettacolo; del resto Lavia questo lo dice tranquillamente, per poi essere d'accordo con me, alla fine.
Ma questo succedeva anche, per fare degli esempi, con Memé Perlini o con Vasilicò?
No, anche perché in quei casi delle cantine quasi non c'erano scene e quindi non ho mai avuto richieste di questo tipo da nessuno. Del resto io faccio gli attori da soli, con altri attori, faccio primi piani, piani americani, i gruppi, cioè per quanto mi riguarda fotografo tutto dello spettacolo. Perché è giusto far risaltare la scena, le luci, i costumi, ma una volta che hai fatto qualche scatto poi che fai? Inoltre un attore e anche lo stesso Lavia, nonostante quello che dice lui, è piccolissimo in scena e se fai un totale che vedi? Vedi Lavia-formica.
Quindi è come se tu vedessi di più, con le fotografie, di quello che vede lo spettatore.
Si, anche se poi lo spettatore, specie se c'è l'attore famoso, guarda l'attore. Succedeva per tutti: Gassman, Albertazzi, Mariangela Melato, Valeria Moriconi, Eduardo, che era una calamita per il pubblico e aveva scene un po' particolari, e via dicendo. Il pubblico una volta vista la scena si concentra sull'attore
Parliamo della leggenda che vuole che le tue fotografie siano più belle degli spettacoli...
No, è solo una leggenda, perché la macchina si limita a riprendere quello che c'è sulla scena, in ogni caso non sta a me dirlo. Non parlo mai male di nessuno spettacolo, anche quello brutto, perché so che lavoro c'è dietro alla costruzione di uno spettacolo.
Forse dietro questa leggenda c'è una sostanza e cioè che tu faccia emergere l'anima di uno spettacolo.
Non so, certo per un'etica professionale e perché ritengo sia giusto cosi, non faccio assolutamente circolare fotografie brutte. Per me l'attore, visto che ci mette la faccia, dev'essere al meglio, certo con le espressioni ecc. ma una fotografia con la smorfia di un attore non inerente allo spettacolo non la faccio circolare. Quindi forse per questa ragione c'è questa leggenda. E mi dicono che sono molto amato dagli attori.
Il tuo modo di porsi con umiltà certo ti fa amare.
Anche se sono a stretto contatto con gli attori e sono ben tollerato anche sul palcoscenico non amo per niente essere invadente. Dicono che è come se io non ci fossi.
Come se diventassi un medium.
Si mi sento così. Più che un medium, forse direi invisibile. Infatti non ho mai avuto contestazioni da parte degli attori e dei registi, a parte qualcuno. Per esempio ho fotografato in questo modo, da poco, Tato Russo al teatro dell'Unione di Viterbo3. Mi ricordo che Quartucci pretendeva proprio che stessi in palcoscenico e diceva «Fa parte dello spettacolo».
Quartucci apparteneva al nuovo teatro. Ma tu ti senti più a tuo agio con, diciamo, Quartucci o con Lavia?
Per me non c'è nessuna differenza, ci sono le stesse esigenze.
Hai mai fotografato il pubblico, il teatro come struttura, i camerini?
I camerini si. Ho fatto un libro sugli attori in camerino4. I camerini, specie una volta mentre ora un pochino di meno, sono dei palcoscenici. Una volta gli attori avevano un rapporto stranissimo col camerino: tutti avevano oggetti scaramantici, fotografie, ricordi e via dicendo. Quando ho fatto questo libro volevo proprio far emergere questo rapporto strano e mi è costata più fatica di cento spettacoli. Anche perché gli attori in palcoscenico non hanno problemi perché sono personaggi, ma nell'intimità del camerino ho avuto serie difficoltà. Erano molto impacciati, timidi, per qualcuno di loro sono dovuto tornare due o tre volte.
Hai avuto contatti con altri fotografi di scena o non specificamente di scena?
Con alcuni abbiamo fatto addirittura delle mostre collettive. Ho avuto molta stima di un fotografo di Bergamo, straordinario, Maurizio Buscarino, che prediligeva i posati e il bianco e nero; ho conosciuto Norbert, molto bravo, che fotografava prevalentemente Ronconi, poi Cesare Accetta che poi ha lasciato.
Il passaggio al digitale cosa ha comportato? Senti il problema della manipolazione delle immagini?
Per me il passaggio dall'analogico al digitale è stato traumatico, ma penso per tutti i fotografi professionisti. Anche perché dieci o dodici anni fa il digitale non aveva la qualità che c'è adesso e ho dovuto rivoluzionare tutto. Certo l'inquadratura rimane quella, ma la tecnologia è completamente diversa. Ora onestamente non tornerei più indietro, anche perché la qualità è ormai di dieci volte superiore alla pellicola. Poi è tutto semplificato: prima ero costretto a girare con dei cavalletti enormi perché la pellicola era poco sensibile e in teatro la luce è sempre poca, quindi dovevi per forza utilizzare il cavalletto. Ora il digitale raggiunge delle sensibilità sbalorditive e puoi fotografare dove c'è quasi assenza di luce e questo è un vantaggio enorme. Per quanto riguarda invece la manipolazione delle immagini: io non la faccio, non mi interessa. Per me la post-produzione è soltanto un pochino il bilanciamento del colore, del bianco, dei contrasti e se una fotografia ti viene sottoesposta o sovraesposta, riesci quasi sempre a recuperarla. Naturalmente questo è un vantaggio enorme. Non faccio manipolazione e ritocchini, come vorrebbero alcuni attori, perché posso capirlo al cinema e in televisione, ma il teatro è fatto di rughe, di espressioni, di sudore, se levi quello non è più teatro.
Tornando alla questione di eventuali differenze nel fotografare teatri differenti, si legge che alcuni fotografi nel fissare gli spettacoli del contemporaneo sottolineano la necessità di modi diversi di costruire le immagini.
Lo dico da anni: il problema di questi miei colleghi, soprattutto questi giovani, è che vogliono fare gli artisti degli artisti e non è possibile a teatro. Anch'io quando ho tempo, quando è possibile, faccio questo tipo di fotografie, ma alle compagnie nemmeno le faccio vedere perché a loro non serve. Uso queste immagini quando faccio mostre o pubblicazioni. La mia concezione della fotografia di scena è questa: con una fotografia devi poter riconoscere uno spettacolo, lo stile ecc. A cosa serve una fotografia mossa di Gabriele Lavia? Voglio aggiungere una questione che riguarda questo archivio. E cioè che qui uno studioso può trovare fotografie di uno spettacolo di decenni fa, ad esempio come La cena delle beffe del 19745, ma un domani, dal momento che tutti fotografano ma nessuno raccoglie le immagini, sarà molto difficile documentare il periodo attuale del teatro italiano. A questo serve un archivio infatti e su questo andrebbe fatta una riflessione seria6.
Incontrando Tommaso Le Pera e il suo archivio fotografico si va incontro a un'esperienza di trasparenza, che contrasta col cliché, ancora diffuso, dello spettacolo come dimensione privilegiata dell'artefatto o del falso, cioè del "corrotto". Le foto di scena, oggetto quasi monotematico dei suoi scatti, contengono la volontà di registrare, sotto la cortina dei costumi, dei trucchi, delle luci, l'elemento processuale del qui e ora, agendo come cartina di tornasole nei confronti dell'evento performativo. Agendo cioè il più possibile con lucidità, con un distacco che evita il quasi inevitabile sovrapporsi narcisistico di chi fotografa.
La schiettezza e l'assenza di enfasi che connota la sua persona si avverte nell'organizzazione dell'immensa mole di immagini che costituisce il suo archivio, definibile, secondo gli standard, come "archivio corrente", archivio corrente che in effetti coincide con il luogo in cui è depositato. Questo archivio fotografico è certamente destinato a divenire nel tempo, ancor più di quanto non lo sia già al momento, un "archivio storico" del patrimonio culturale delle Performing Arts, dal momento che le immagini scattate da Tommaso Le Pera si riferiscono a oltre 4500 spettacoli italiani a partire dal 1965 circa, sino ad oggi. Fra queste, una piccola parte è dedicata a rappresentazioni di lirica e di balletto, ma sono presenti anche immagini effettuate in studi televisivi.
La prima fase di costituzione dell'archivio, quella che predomina ancora, è sorta grazie alla precisa volontà del celebre fotografo di scena di avere a disposizione in modo funzionale tutto il materiale, cioè di poterlo recuperare con facilità, grazie a una classificazione che consentisse di individuare le immagini velocemente. Va chiarito, infatti, che la scheda approntata e ancora utilizzata da Tommaso Le Pera per il riordino non è una scheda che si attiene ai protocolli ministeriali, ma segue logiche di assetto d'uso interno.
E dal momento che l'unità di misura utilizzata è quella del singolo spettacolo, pur nella molteplicità delle repliche, i campi della schedatura sono relativi alle sue principali circostanze: titolo dello spettacolo, autore del testo, regia, interpreti, scenografo, costumista, tecnici delle luci e del suono, data del debutto, luogo e nome del teatro. Le immagini di ogni singolo spettacolo, sia i fotogrammi in formato analogico sia in digitale da una decina d'anni, sono infatti raccolte fisicamente in quaderni numerati, posti all'interno di scaffali facilmente accessibili. Va tuttavia notato che una parte dei materiali non è stata catalogata e non compare quindi ad una ricerca sul sito7.
È un archivio di lavoro, dunque, essenziale e pratico. Ma, per la particolare qualità (e quantità!) dei documenti, visitare l'archivio fotografico di Tommaso Le Pera, oltre che a conoscerne gli elementi organizzativi, consente di tuffarsi nel campo di forze che operano nei processi performativi: è proprio il suo metodo fotografico, di cui parlerò in seguito, a spingere in questa direzione.
In questo saggio vorrei considerare le definizioni e le fasi cronologiche provenienti dalla legislazione e dalle norme archivistiche, così come la nozione stessa di archivio, come pure suggestioni, figure retoriche da plasmare all'interno di un pensare all'archivio di Le Pera non solo, com'è più evidente, quale deposito fisico di memoria dello spettacolo, dunque in relazione ai contenuti degli scatti, ma quale "media" che implicitamente crea una narrazione e celebra un cerimoniale immersivo nel recente passato teatrale italiano.
Per media infatti non voglio intendere tanto la fotografia, quanto l'archivio in se stesso che, se per Le Pera è stato ed è uno strumento necessario di lavoro, per chi lo visita è un ambiente dove si opera un atto comunicativo. Nella messa a punto, sin dai primi anni Settanta, di una inventariazione dei materiali, Le Pera mostra un'estrema consapevolezza in termini di costruzione storica. Come ben dimostrano le parole conclusive dell'intervista, non è solo importante la produzione di documenti fotografici, altrettanto essenziale è la loro raccolta, poiché solo dal dialogo di ogni singolo scatto con l'insieme può nascere la narrazione, altrimenti frammentaria. Il fotografo sottolinea quindi il rischio di una futura perdita di accesso alla memoria dello spettacolo, provocata non dall'assenza di immagini, bensì dalla loro dispersione.
Al di là di un'opposizione fra metodo e contenuto, il metaracconto che connette i materiali custoditi in questo archivio induce un "rapimento estatico" nei confronti del fenomeno scenico e uno sforzo di prevenirne l'oblio, creando la possibilità di riattivare un tempo concluso, quello della scena italiana dalla metà degli anni Sessanta a oggi.
Nella tecnica d'archivio, l'elemento dell'immateriale non può trovare codificazione, né "stringa" che lo possa descrivere adeguatamente, né "campo" che lo racchiuda. Se le direttive UNESCO, solo recentemente recepite nell'ambito dei Beni Culturali in Italia, individuano nella trasmissione e nella formazione generazionale il mezzo di tutela dell'immateriale qualora si tratti di mestieri e di artigianati, le Performing Arts questo fattore l'hanno avuto chiaro da sempre. Perché la questione della tutela diviene particolarmente manifesta e problematica quando l'immateriale sia relativo all'opera d'arte vivente.
Ecco che le fotografie di spettacolo, e di questo Tommaso Le Pera non ha mai sottovalutato l'importanza, sono documenti al confine fra materialità della presenza dell'evento e sua sparizione, o altrimenti detto, il suo cambiare status nelle sfere della memoria. L'importanza della documentazione fotografica nella funzione di testimonianza della scena, fin dall'inizio della sua comparsa, quando per lo più si trattava di ritratti di attori realizzati in studio, è ovviamente un dato acquisito dalla storiografia8. SI può tuttavia avanzare l'ipotesi che a fare la differenza sia il grado di consapevolezza nel suo "gesto fotografico", nella direzionalità del pensiero che lo guida. A tale proposito dichiarava infatti:
Mi sono subito reso conto che, una volta terminato, dello spettacolo non rimane niente, se non recensioni e appunto fotografie, a testimonianza di qualcosa avvenuto, si può dire, in una manciata di minuti9.
Il suo lavoro fotografico infatti, sia quando su commissione sia, come avveniva all'inizio della carriera, quando si trattava di scatti "rubati" all'insaputa degli artisti o comunque senza un accordo preventivo10, è sempre stato dettato dal lungimirante operare in previsione memorialistica. Cioè nella prospettiva di trattenere con le fotografie una traccia degli spettacoli, di salvaguardarli, grazie alla lucidità e all'intuito, come un medium in grado di richiamare alla vita ciò che ha mutato forma. In altre parole, Le Pera ha voluto creare principalmente un documento memoriale e non un proprio intervento "artistico", ha strategicamente voluto scomparire all'interno del processo performativo, restituendo il più possibile un grado di aderenza alla realtà interiore dello spettacolo. Nell'intenzionalità del fotografo, gli scatti sono dei "sostituti" dello spettacolo scomparso, situandosi quindi non in una prospettiva di indice, ma di icona, nei confronti dell'evento performativo. Implicare i termini indice e icona apre al vasto territorio delle riflessioni intorno al "fotografico", qui declinato nell'ambito della scena. Ma se il mito originario della fotografia, in quanto valenza in primo luogo denotante, va certo esclusa dall'operare di Le Pera, in lui è piuttosto da scorgere il desiderio di creare quello che Maria Ines Aliverti definisce come «sostituto feticistico» della presenza11 e che propongo di considerare principalmente in tanto che icona.
Il desiderio di voler ri-creare una presenza perduta, cioè di voler supplire alla fine dello spettacolo tramite la fotografia, chiarisce la ricerca di vicinanza con gli attori e di partecipazione dall'interno, che lo porta ad avvertirsi, nell'atto di fotografare, come divenuto invisibile. Nel momento in cui realizza i suoi scatti, Le Pera ha già spesso incontrato la compagnia e il regista e ha già preso parte almeno a una prova dello spettacolo. Oltre a conoscere testo, autore, regista e in generale lo stile espressivo predominante, il fotografo entra in relazione personale con gli attori e con l'"ambiente umano" da cui germina il lavoro, favorendo un acclimatarsi reciproco. Solo dopo questa fase, da lui ritenuta di grande rilevanza, fa seguito l'esecuzione del servizio fotografico, che avviene per lo più non durante il debutto o una replica, ma durante una delle ultime prove o la prova generale, momento che lui stesso riconosce come estremamente delicato.
Ci sono ragioni di ordine pratico a dettare questa prassi: quella prioritaria è che non si possano disturbare né attori, né pubblico durante lo spettacolo. Ma un'altra ragione, quella fondamentale, consiste nel fatto che Le Pera predilige fotografare entrando fisicamente in palcoscenico, dentro la plasticità dell'evento, creando delle incursioni nelle azioni, per così dire passando da una bidimensionalità del quadro a una tridimensionalità a tutto tondo. Quando non gli sia possibile "oltrepassare la ribalta" i suoi avvicinamenti al raggio d'azione degli attori avvengono con la tecnica, cioè soprattutto il teleobiettivo. Lo spettacolo si fa in questo modo duttile e malleabile, provoca molteplici punti di vista, frantuma la struttura più cogente delle azioni in principali e secondarie, il peso dei ruoli fra attori protagonisti e marginali, consente di comprendere il valore non decorativo dato alle luci e ai costumi. Se la costruzione frontale della fotografia di scena come quadro induce a una lettura pittorica, "letterale", vale a dire incorniciata spesso (certo non sempre) dal rettangolo dell'arco scenico, il lavoro di Tommaso Le Pera esalta piuttosto interpretazioni "figurate", amplificando non solo il valore spaziale, ma anche quello semantico.
Leggenda, conosciuta dai teatranti italiani, vuole che le fotografie di Tommaso Le Pera siano più belle dello spettacolo che ritraggono: ed è forse proprio l'accesso all'interno (Eleonora Duse direbbe, credo, alla fodera) dell'evento, il suo fotografare in palcoscenico stando dentro l'azione, a fare la differenza e a far apparire il recondito alla superficie dell'immagine. La presenza in scena di Tommaso le Pera è, o aspira a essere, a tutti gli effetti a carica neutra, ma insieme presuppone di partecipare all'evento dentro l'ambiente, in cui il fotografo si muove come una sorta di presenza fantasmatica nel bel mezzo della battaglia. La metafora della performance come luogo dove le forze si schierano e si scontrano permette di mettere a fuoco, per contrasto, la scelta di imperturbabilità documentale da lui operata, in grado di produrre, si potrebbe dire, non foto ma "radiografie" di scena.
1. Gabriele Lavia è spesso richiamato nel corso di questa intervista perché, nei giorni immediatamente precedenti, lo spettacolo I giganti della montagna di Luigi Pirandello aveva debuttato il 27 febbraio 2019 al Piccolo Teatro di Milano con la sua regia e Tommaso Le Pera era stato incaricato delle foto di scena (Cfr. fig. 2). Nel volume fotografico Tommaso Le Pera e Anna Testa, Lavia il terribile, Imola, Manfredi, 2017 sono raccolte molte immagini dedicate all'attore e regista.
2. Ugo Mulas (1928-1973) collabora con Giorgio Strehler, per il quale realizza le fotocronache degli spettacoli L'opera da tre soldi (1961) e Schweyck nella seconda guerra mondiale (1962), entrambi drammi di Bertolt Brecht. Cfr. Bertolt Brecht e Kurt Weill, L'opera da tre soldi, a cura di Giorgio Guazzotti, Bologna, Cappelli, 1961 e Bertolt Brecht, Schweyck nella seconda guerra mondiale, Bologna, Cappelli, 1962.
3. Si tratta dello spettacolo La ragione degli altri di Luigi Pirandello, regia di Tato Russo, che ha debuttato al teatro dell'Unione di Viterbo il 28 gennaio 2019. Il volume Il teatro di Tato Russo nelle fotografie di Tommaso Le Pera, Imola, Manfredi, 2018 raccoglie molte foto di scena di suoi spettacoli.
4. Tommaso Le Pera, Signori, chi è di scena. Attori in camerino, Roma, Gremese, 2008. Nella prefazione Giuseppe Patroni Griffi scrive a p. 8: «Ha fatto bene Tommaso Le Pera a fotografare i camerini degli attori di oggi. Vi si possono capire gli umori, le differenze, i modi di stare oggi nei teatri. Si può cogliere il cambiamento dei tempi e il cambiamento del teatro nella sua quotidianità, con quel tanto di "romantico" che ha perduto e quel tanto di manageriale che ha acquistato. Questo mancava al mastodontico archivio fotografico sul teatro italiano che Tommaso Le Pera ha creato dopo anni di febbre rosso e oro che mai l'abbandona, un documento impressionante, unico, degno d'un museo iconografico. Ed anche per questo dobbiamo essergliene grati».
5. Cfr. fig. 1.
6. Il non recentissimo volume di Marco Bastianelli, Archivi fotografici italiani. 600 fondi e raccolte di immagini, Roma, Reflex, 1998 censisce archivi istituzionali e collezioni private, fra cui l'archivio di Tommaso Le Pera.
7. Il sito, in progressiva implementazione, è all'indirizzo: www.fotolepera.it. Le fotografie non archiviate sono relative ai primi anni di attività di Le Pera quando, per sua stessa ammissione, non applicava ancora un metodo costante di classificazione.
8. Cfr. Marianna Zannoni, Il teatro in fotografia. L'immagine della prima attrice italiana fra Otto e Novecento, Corazzano (Pi), Titivillus, 2018.
9. Cfr. la video intervista Le foto che farò all'indirizzo https://www.youtube.com/watch?v=wmqkWgu-43Q (ultima consultazione 8 marzo 2019).
10. Durante la video intervista Le foto che farò racconta di quando, nei suoi primi anni a Roma, fotografava spesso di nascosto. Del resto Le Pera già in altre occasioni si era espresso in modo analogo.
11. Scrive Maria Ines Aliverti: «per lui (riferendosi a Maurizio Buscarino) la foto di teatro non è un sostituto feticistico della presenza effimera dell'attore, ma già dall'inizio, come lui stesso dichiara, è un discorso sull'assenza o sulla morte». Cfr. Maria Ines Aliverti, dalla fotografia alla teatralità, in Occhi di scena. Fotografia e teatralità, a cura di Massimo Agus e Cosimo Chiarelli, Corazzano (Pi), Titivillus, 2007, p. 12.
Paola Bertolone