giovedì, 28 marzo, 2024
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INTERVISTA a VALENTINA MARINI - di Michele Olivieri

Valentina Marini. Foto Marina Alessi Valentina Marini. Foto Marina Alessi

Cara Valentina, qual è stato il tuo approccio con il mondo culturale e in particolare con quello della danza?
Mia madre ha un passato da pittrice e credo indirettamente mi abbia trasmesso un'attitudine alla "cosa artistica". La danza è entrata nella mia vita in un modo buffo, dapprima a sei anni chiesi di iscrivermi a un corso semplicemente per seguire la mia amichetta dell'epoca, non volli nemmeno terminare l'anno e tra urli e strepiti chiesi a mia madre di non farmi più andare alle lezioni di danza. Scelsi come attività extrascolastica, in un Istituto a Verona collegato alla scuola che frequentavo, un corso di pittura su ceramica che mi appassionò enormemente. Un giorno a causa dell'assenza per malattia della docente i tutor ci smistarono nelle altre classi per coprire l'ora di attività e mi capitò un'inaspettata classe di danza. L'insegnante era una donna che diventò mia amica e confidente per molti anni, fu amore a prima vista. Ogni percorso, del resto, è costellato di esseri umani che ci aprono delle porte che altrimenti rischieremmo di non varcare mai.

Hai poi organizzato e diretto il festival "Danza d'Estate" a Verona, dedicato alla disciplina contemporanea. Quali emozioni hai tratto da quest'esperienza e in particolare quale serata ricordi con più trasporto?
"Danza d'Estate" è per me una tappa fondamentale di vita, è da lì che è nato tutto nella sana follia degli inizi. Il Comune di Verona non accoglieva le mie maldestre proposte in Commissione Cultura e decisi molto semplicemente di produrre da sola un Festival da zero a 19 anni. Fu una follia ma una esperienza che in tre anni mi ha travolto come uno tsunami accelerando sul campo la mia preparazione a quello che sarebbe stato poi un mestiere. Posso dire con orgoglio che l'allora glorioso "Balletto di Toscana" danzò nella città di Verona nella loro strepitosa carriera solo a quel Festival, in una magica serata di luglio sold out tra i miei pianti di commozione (sono famosa per le mie lacrime) mescolati ai rumori delle fontanelle del Giardino Giusti, sede dell'evento, l'anno prima della loro chiusura.

Sei abituata in teatro al dietro le quinte ma non ti è mai venuta voglia, fin da giovanissima, di calcare il palcoscenico in qualità di esecutrice?
Da bambina vivevo la lezione di danza come il climax della settimana, ogni volta che mi facevo male a livello articolare o altro, dato che non ero fisicamente dotatissima, pensavo che sarei morta senza danza. Crescendo ho capito che la danza era in me non per la scena ma per la danza stessa, la mia prestazione era sempre secondaria rispetto al desiderio di vedere qualcosa di straordinario intorno a me e questo ha fatto immediatamente scivolare l'obiettivo verso ciò di cui mi occupo oggi.

Ad oggi quali sono i ricordi più belli legati al magico mondo della danza?
Tutti, l'odore del palcoscenico, le risate con gli artisti, gli applausi nei diversi Paesi, gli abbracci dei danzatori. I ricordi sono legati sempre a momenti artistici, ciò che va cancellato è l'orrore della burocratizzazione dalla cosa artistica.

Qual è stato il tuo momento di maggior orgoglio?
Forse nell'ingenua emotività del momento quando al Festival Danza d'Estate del 1999 ci fu la standing ovation per la serata del Balletto di Toscana, per poco non infartavo dall'emozione... avevo fatto tutto: da spazzare il palco a preparare il catering a casa nella notte. Sono ricordi che non si cancellano perché sembrano traguardi ineguagliabili in una età in cui guardi le cose con lo stupore di chi non sa. Lo stesso tuffo al cuore lo vivo ogni volta che riesco assieme al mio gruppo di lavoro a riempire una sala di uno spettacolo che ho programmato, allora sento che c'è ancora speranza. Accanto a questo, ogni nuovo Paese varcato con "Spellbound", è per me una vittoria e un motivo di gioia incredibile.

Mentre la delusione più cocente?
Aver capito che i ballerini non sono per sempre (scherzo). La vera delusione è stata intendere che viviamo in un Paese dove non esiste ricambio generazionale.

Parliamo del tuo imminente Festival "Fuori Programma" dedicato alla danza contemporanea, in scena in diversi luoghi di Roma?
È un "Fuori programma" di nome e di fatto, nato come eredità di un progetto già avviato dal Teatro Vascello e poi rilevato da me a livello produttivo, ha di certo fatto rinascere una mia vocazione sopita. Di fatto il Festival mi suggerisce un'idea di festa, di chiamata a raccolta, di riunione collettiva intorno a un programma di artisti e pubblico. Roma ha una massa di turisti che da sola riempirebbe cento teatri ogni estate, è impensabile che la proposta culturale estiva sia esclusiva delle grandi opere o dei grandi concerti, nel resto d'Europa la scena contemporanea è viva e vegeta anche nei mesi estivi ed è anche con questi Festival che va attivato un dialogo per favorire una programmazione in rete. Il viaggio è ancora lungo ma ho in mente un allargamento del progetto nelle prossime edizioni e spero che si possa realizzare, nel faticoso slalom tra Enti, permessi e quanto altro può renderti ahimè complessa la gestione di qualsiasi cosa nella capitale.

Dieci artisti provenienti dall'Italia, Germania, Francia, Spagna i quali condivideranno con il pubblico le loro visioni e creazioni. Come è avvenuta la scelta programmatica?
Spesso le scelte programmatiche nascono nelle pieghe di mille difficoltà, di budget, di tempistiche, di spazi. A volte in questa morsa di limitazioni si è obbligati a mettere maggiormente a fuoco la lente e si trovano soluzioni sorprendenti. Di certo in un'ottica come quella della programmazione estiva uno dei criteri di scelta per me necessario è il confronto con i colleghi, sia per ottimizzare, tutti, dei costi, sia per agevolare la circolazione degli artisti, e per questo sono felice di proseguire per il secondo anno la collaborazione con "Bolzano Danza" con cui condivido la scelta di Camilla Monga e Filippo Vignato e di Sita Ostheimer. Un altro parametro importante è stato la relazione con i luoghi, una regola ferrea nelle valutazioni sulle proposte è la coerenza con gli spazi. Partendo quindi dai luoghi ho cercato delle proposte che in qualche modo li valorizzassero, infatti due eventi sono site specific per questo. Per il resto in termini generali penso sempre che un Festival debba avere quel mordente in più e stimolare la ricerca di qualcosa di diverso, di nuovo, anche rischiando un po', ma senza cadere nell'ossessione della prima a tutti i costi e anche favorendo artisti che il pubblico ha amato nelle edizioni passate per fidelizzarlo a seguirne il percorso creativo.

Quante realtà ancora a noi sconosciute in Italia sono presenti nel vasto paesaggio della scena internazionale?
L'Italia è un Paese molto provinciale rispetto alla visione artistica per cui è molto facile correre ad applaudire il main stream ma molto raro trovare un pubblico curioso che voglia cercare e scoprire il nuovo (soprattutto ahimè tra i danzatori). In questo è la scommessa a mio avviso di un buon programmatore, saper instaurare quel rapporto di fiducia per cui il pubblico possa voler puntare sul meno noto fidandosi della scelta di chi lo ha proposto. Il mondo dello spettacolo dal vivo si basa su una catena di fiducia, tra artisti e produttori, tra pubblico e artisti e tra pubblico e programmatori, e alimentarla è un esercizio doveroso.

Cosa significa per te lo sguardo?
Lo sguardo è per me un concetto molto importante, è uno sguardo interiore prima che esteriore, è la capacità di osservare e ampliare la visione attraverso lo sforzo di voler cercare sempre senza giudicare ma sapendo scegliere con rispetto sia degli artisti che del pubblico. Vorrei che chi studia danza allenasse lo sguardo in questo senso, come esercizio alla visione, alla scoperta, alla curiosità.

Quale lettura dai alla definizione "danza contemporanea"?
Aiuto, temo sempre il campo delle definizioni. Diciamo che escludendo le asserzioni stilistiche l'area del contemporaneo dovrebbe essere quel contenitore all'interno del quale i linguaggi artistici si fondono esprimendo l'oggi, un artista contemporaneo dovrebbe essere lo specchio della sua società e del suo tempo per estetiche, linguaggi, contenuti e perché no, denunce. L'espressione contemporanea dell'arte in generale dovrebbe sempre essere quel messaggio che riletto dopo anni dà il senso e la misura di quel tempo, di quel pensiero, di quel tessuto socio politico che ne ha dato origine.

Mentre a quella moderna?
Le definizioni le lascerei alle tecniche codificate. Al di fuori delle Accademie dove è didatticamente doveroso conoscere la differenza tra Horton, Graham e Limón credo che per noi sia più importante concentrarci su quali spettacoli, in senso trasversale, siano meritevoli di essere sostenuti qualsiasi cosa essi mescolino in scena.

Sei abituata Valentina, viaggiando parecchio, ad una scelta di linguaggi differenti legati alle differenti culture geografiche, agli usi, alle tradizioni e alle origini. Dove collochi il tuo maggiore interesse?
Sicuramente sono incuriosita dalle diversità, abbiamo uno sguardo che tende a centralizzare nella visione occidentale il corpo e il suo utilizzo, ma è incredibile scoprire come altre culture lavorino il movimento e lo strumento corpo secondo codici profondamente diversi.

Come si può disegnare o meglio ridisegnare la poetica e il senso estetico ai giorni nostri per lasciarne anche traccia un domani?
L'azione contemporanea dovrebbe avere come funzione quella di raccontare o denunciare l'oggi, in ogni senso. Il come lasciarne traccia per un domani è nelle mani dell'artista e nella sua capacità di rendere l'opera credibile e portatrice di senso.

La pluralità e le differenze quale valore aggiunto danno alla coreografia?
Se la coreografia non si riduce ad un tecnicismo è per sua natura la voce della specificità dell'autore, del suo vissuto e del suo pensiero tradotto in azioni sceniche. Più che un valore aggiunto la pluralità e le differenze sono le sole basi su cui costruire una riconoscibile identità artistica.

Quali sono le tue proposte artistiche future?
Il futuro spesso è difficilmente prevedibile, e sono sempre aperta a nuove sfide. Accanto alla gestione di "Spellbound" che resta la parte preponderante della mia attività professionale, sono molto concentrata sul piano della programmazione, sia disegnando il prossimo "Festival Fuori Programma", sia pensando al nuovo progetto triennale da presentare al Comune di Roma con il gruppo di lavoro con cui negli ultimi anni è stato creato un piccolo grande miracolo al Teatro Biblioteca Quarticciolo, dando vita in una periferia tra le più difficili della città ad un centro pulsante di attività culturali riconosciuto a livello nazionale.

Cosa ti affascina se volgi la tua veduta al passato, verso la storica arte della danza e del balletto?
Mi affascina vedere come l'estetica del corpo nel balletto sia stata trasformata verso linee e traiettorie un tempo impensabili. Si è raggiunta oggi una perfezione e una accordatura incredibile dello strumento corpo ma si continua a sognare vedendo i video in bianco e nero di étoile dalla fisicità meno estrema ma dall'anima che ancora oggi buca lo schermo.

Come ti poni nei riguardi della danza classica accademica?
Con una certa riverenza devo dire... è quello un ambito dove non sono concesse sbavature. Non rifiuto, se posso, ad un ottimo spettacolo di danza classica, ma solo se di livello altissimo: soltanto in questo ambito ammetto che non trovo interesse se non nell'eccellenza pura.

Come vivi la programmazione in qualità di direttore, è in qualche modo un viaggio introspettivo?
La vivo con grande responsabilità, a volte un pizzico di apprensione sapendo l'immenso peso che ha la scelta di ciò che si mette in scena nei confronti del pubblico che a volte, faticosamente, si raccoglie. Programmare è affascinante perché da un lato ti obbliga a una visione plurale, all'atto della scelta, dall'altro ti pone nelle condizioni di determinare, se la scelta coglie le aspettative e si incrocia con un pubblico adeguato ad essa, qualcosa che può anche cambiare per sempre l'immaginario di qualcuno o regalare bellezza in senso lato. Ogni spettacolo che ho amato è stata una folgorazione di cui ricordo come un immenso dono l'immagine interiore che ne ho conservato e il mio impegno è lavorare per suscitare in chi sta dall'altra parte della platea lo stesso sentimento. È difficile creare un lampo nell'immaginario del pubblico ma quando ci si riesce è impagabile. Un altro lato stimolante della programmazione è poter fornire dispositivi co-produttivi o anche solo spazi e occasioni ad artisti meritevoli. Sentirsi parte di questa relazione circolare positiva tra artisti e pubblico ti riempie molto. Attivarla è una responsabilità e un mestiere che parecchi confondono con l'inserimento passivo di spettacoli in un calendario, ecco quel concetto di programmazione produce per me l'esatto opposto, annullando ogni potenziale di crescita sia artistico, che produttivo che di costruzione di una massa critica. Il teatro, quello sano, genera comunità nella misura in cui riunisce intorno o davanti ad un palco una massa di soggetti che si ritrovano con e per un punto in comune che in quel momento è ciò che accade sulla scena. Se la condivisione genera pensiero e produce una riproduzione sana di se stessa è forse oggi l'unica salvezza che abbiamo per contrastare lo spettacolo orrendo sul piano sociale e culturale che la politica ci sta fornendo.

Oggi cosa significa fare ricerca e sperimentazione nella danza?
In realtà sono termini abbastanza abusati oggi giorno, fa molto figo autodefinirsi autori di ricerca, in un'era dove tutto passa per l'autocertificazione tramite pagine web. Per me la ricerca ha due rami di applicazione, un primo relativo al proprio percorso personale, un autore, se tale deve sempre ricercare nella misura in cui deve trovare un suo linguaggio e auspicabilmente rinnovarsi o comunque trovare stimoli e dispositivi linguistico estetici che lo facciano crescere o evolvere rispetto a se stesso. C'è poi un piano di ricerca che impatta sulla scena in generale e che appartiene davvero a pochi, ovvero a coloro che hanno realmente la capacità di rischiare e trovare nuovi modelli compositivi o nuovi metodi (non autodefiniti tali) risultando dei precursori e lasciando una eredità tangibile. Ma questi si contano sulle dita di una mano.

Cosa pensi che accadrà nel sistema della danza italiana? Se dipendesse da te Valentina cosa vorresti modificare in modo radicale?
Se avessi la bacchetta magica cambierei la mentalità di chi la danza la pratica, prima ancora del sistema. È scontato ma vero dire che servono più risorse in un Paese che investe in modo risibile rispetto al resto dell'Europa sul piano dello spettacolo del vivo oltre che tempi più umani di gestione degli stessi, in un sistema dove dati gli immensi ritardi nelle erogazioni a tutti i livelli siamo di fatto tutti co-produttori di tutti a partire dalle maestranze per finire alle produzioni, ed è romantico dire che sarebbe auspicabile ribaltare il piano culturale del concetto di finanziamento pubblico da copertura del deficit come è ora, in un sistema che porta quindi per statuto a produrre un disavanzo come obiettivo, ad un meccanismo che premi il progetto e quindi l'azione nel senso attivo del produrre attività culturale. L'Italia è un Paese inoltre dove le norme regionali sono diversissime e a macchia di leopardo per cui i dispositivi di chi risiede in Piemonte non sono paragonabili a chi opera che so, in Campania. I sistemi sono tutti correggibili, ma essendo fatti da esseri umani, sono le persone che li definiscono e li avvallano i primi responsabili di ciò che denunciano come storture degli stessi. Da molti anni sono impegnata sul piano delle politiche culturali mediante l'azione delle associazioni di categoria, e citando un recente geniale video di Valerio Mastandrea riprendo la sintesi che "l'Italia è il Paese dove è sempre colpa di qualcun altro". Ecco, a prescindere dalle immense responsabilità della classe politica in fatto di politica culturale, la categoria ne ha altre per l'incapacità di farsi scudo e uscire dai personalismi per alimentare un sistema collettivo. L'investimento politico si rende necessario per sostenere il teatro d'arte, quello che in gergo si definisce "rischio culturale" per differenziarlo dall'intrattenimento puro, ma la pretesa è credibile laddove questa parta da una reale urgenza della base, dalla consapevolezza che possa rappresentare una necessità della gente. Su come si crea questo bisogno si arrovellano in moltissimi ma la sola risposta è partire dalla scuola, dai bambini, dal percepito della danza e delle arti del palcoscenico come una sana possibile alternativa nel tempo libero al cinema e alla musica. Serve abbattere l'equivoco che danza equivale solo a ballerina classica o a rottura di scatole se trattasi di altro, bisogna ridisegnare una definizione di spettacolo dal vivo come qualcosa che nutra l'immaginario di tutti, anche passando attraverso l'esperienza diretta dei più piccoli, e qui sarebbe doveroso il ruolo della scuola dell'obbligo, non certo per alimentare l'illusione di una professione in tal senso per chiunque ma per sostenere la percezione e pratica diretta come unico canale per andarne a cercare e riconoscere la visione dal vivo di chi realmente ne rappresenta la massima espressione. Questo in un Paese dove paradossalmente chi pratica la danza è in assoluto la categoria meno interessata ad essere parte della filiera come spettatore.

La bellezza, in senso lato, potrà ancora salvare il mondo?
La bellezza, non nel senso estetico, è e sarà sempre la nostra salvezza: il problema è saperla cogliere. Per questo va allenato lo sguardo, costantemente. E va insegnato questo ai più giovani, è la nostra maggiore responsabilità.

Michele Olivieri

Ultima modifica il Martedì, 18 Giugno 2019 19:44

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