giovedì, 21 novembre, 2024
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INTERVISTA a IVANA MONTI - di Francesco Bettin

Ivana Monti Ivana Monti

Artisticamente nasce al Piccolo Teatro, e dopo aver lavorato con Giorgio Strehler inizia un percorso che la porta a lavorare con altri grandi artisti come Eduardo De Filippo, Franco Parenti, Dario Fo e Franca Rame, Puggelli, Shammah e molti altri, tra i quali anche Walter Chiari, Rossella Falk, con repertori vari muovendosi a proprio agio con tutti i personaggi interpretati. In tv affianca Lando Buzzanca in “Settimo anno”, e partecipa anche a diverse fiction. Nel 2010 incontra Giancarlo Marinelli, che la dirige in diverse commedie come “L’innocente”, “Doppio sogno”, ed è anche autrice di testi a sfondo storico, punteggiati da canto e musica popolare quali “Mia cara Madre”, “Maria Goia e il delitto Matteotti”, “Risorgimento”, “Sebben che siamo donne”. Ha appena terminato al Teatro Olimpico di Vicenza le repliche di “La signora Dalloway” di Virginia Woolf, e di “Ecuba e le streghe” e “Castracagna, la regina del Po”, dove continua la denuncia sociale, per la 73.ma edizione del Ciclo dei Spettacoli Classici.

In “Ecuba” l’ira per gli Achei e Athena è notevole, ma cosa è più forte, la rabbia o il dolore per gli avvenimenti che la toccano?
In quel momento è la rabbia perché lei non ha ancora coscienza di essere un capo. In lei c’è odio, delusione e disprezzo, per essere stata abbandonata da Athena, che si è venduta agli Achei. Mi è toccato il cuore nello riscrivere Ecuba.

E’ stato anche un piacere lavorarci sopra?
Si’, è proprio vero che la cultura ci lega alla vita, ma la cultura non dobbiamo considerarla più come elitaria, è la conoscenza che va distribuita a piena mani. Tutti hanno diritto di poter godere di quella dimensione di immaginazione, senza la quale si è quadrupedi, si degrada la vita, l’animo. Non offendendo le bestie, che hanno un loro codice.

Ecuba si rivolge a Zeus.
Non lo fa però con un tono di maledizione. E gli umani sono per destino, conformazione, obbligati a mangiare loro stessi, l’un l’altro. Se ci pensiamo è una guerra continua, si sopprimono tra di loro. E’ il destino di dover uccidere i propri simili, che però è antico. Quando ci diremo civili? Nel momento in cui usciremo da questo, dal superare questo ostacolo, sennò rimaniamo sempre schiavi. Allora era per i due Stretti, ma anche oggi, guardi, siamo sempre lì.

Sempre in “Ecuba”, lei mette tanta carne al fuoco.
Ho pensato molto al colonialismo dell’Ottocento, cose macabre, terribili, poi al nazismo, alle sofferenze dei bambini, a tutte le disgrazie. E’ uno spettacolo che vedrei giusto anche per gli studenti, li farebbe un pochino, interessare, vedere dal punto di vista di una troiana cosa sono state queste tragedie.

Gli studenti, i giovani hanno bisogno, voglia di sentire queste cose?
Hanno bisogno di appassionarsi. Io sono andata tante volte nelle scuole, mi sono tanto dedicata al teatro civile. Mio marito (Andrea Barbato, giornalista, mancato nel 1996, ndr) mi raccomandava di non essere solo un’attrice di repertorio ma testimone del mio tempo. Mi è venuto in mente così che bisognava onorare le persone che avevano dato la vita per la patria. E la patria, poi, un concetto che non abbiamo inventato noi ma che ci deriva, come il culto dei morti. E ho scritto “Mia cara Madre”, dove i ricordi sono cadenzati dal canto popolare. Avevo fatto nel 1978 “Ci ragione e canto” con Dario Fo, che per me è stata un’illuminazione assoluta, e mi dicevo che da grande dovevo rifarlo. E nel mio testo ho messo le canzoni d’amore, di gioco, guerra e resistenza. Il canto popolare per me è una cosa grandiosa, profonda. Il coraggio di un popolo sta nelle sue radici. E non ci ricordiamo mai di quelli che sono in seconda fila, come Maria Goia, per esempio, ma sono proprio loro che trascinano gli altri, che li guidano. Mi sono sentita orgogliosa di essere italiana, di aver studiato quelli delle seconde file.

Grandi incontri, come con Paolo Grassi, vero?
Grassi mi disse, me lo sono sempre ricordato, che il teatro è impudicizia. Non quella fisica, ma del dire i pensieri più tetri, profondi, quelle che chiamiamo pulsioni. Guardavo Valentina Cortese e mi dicevo che non sarei mai stata capace di dire certe cose a teatro. Quando si è giovani si ha vergogna, poi si cambia.

Lei ebbe un gran successo anche con il teatro brillante, con Walter Chiari.
Avevo già cominciato con Eduardo nel 70, con “Ogni anno punto e a capo” ero appena uscita dalla scuola del Piccolo, e lui lì rifaceva un pochino di varietà. C’erano la Colli, Paolo Graziosi, Milly. Dopo ci furono tre anni di “Re Lear”, periodo meraviglioso ma anni di tragedia, morti, tradimenti. Non sembra ma in una giovane lavorano dentro queste cose. Quindi ho fatto “Fede speranza carità” di Von Horvat, che per me è sacro, poi appunto con Fo, e “Settimo anno “ in tv. Ero una tragica che andava a fare la televisione, impietosa, nessun gobbo, tutto a memoria, cantare ballare, recitare, gli sketch, i tempi, i ritmi. Un massacro, che ho vinto, ma la fatica è stata grande. E ho cominciato a sentire il piacer del brillante, della mobilità mentale. Sono andata a vedere Walter Chiari al Castello Sforzesco, l’ho visto creare un personaggio da una nota stonata. Anche lì mi son detta che quella cosa non la sapevo fare, certo ormai stavo imparando ad approfondire, dentro, sotto le battute, ma ad andare fuori dal pentagramma per poi ritornarci, no. Allora pensai che forse mi serviva fare un’esperienza con lui. Mi consigliai anche con Grassi, che mi disse “Vai che impari”. Walter è stato onestissimo con me, sul palco lui parlava, parlava, aspettavo per dire la mia battuta ma niente, esagerato. Una volta sono andata via furiosa alla fine del primo tempo, ma lui in camerino mi bussa: “Ivana, parliamone con amicizia”. Mi ha tolto tutta la veemenza.

Grandi insegnamenti dunque?
A parte quelli, il rispetto della risata del pubblico, da non togliere al partner. E’ durissima l’arte del comico, faticosissima. E l’invenzione, l’estro creativo, la capacità di vedere criticamente anche se stessi, di ridere delle situazioni, di sé e del mondo. Anche il riso è una grande rivoluzione, un’arma senza colpi. Col teatro brillante ho imparato anche a sviluppare le parti centrali delle corde vocali.

Lo farebbe, o farà ancora?
Farlo è esaltante, e ammiri degli autori. Per esempio, “Due dozzine di rose scarlatte” di De Benedetti è geniale, non parla solo di un interno borghese ma fa denuncia. Come Aldo Nicolaj, che è così sottovalutato, o Barillet e Grédy, gli autori di “Fiore di cactus”. Non parliamo poi di testi come “Tovaritch” di Deval, una delizia di scrittura. Il teatro, come la vita, con le sole tragedie non sopravviverebbe, perché si basa sul richiamo sull’affetto, la gioia che il teatro brillante porta con una grande disciplina e grandissimo studio con una misura impercettibile ma che è un’ingegneria. E’ un’arte finissima.

Il grottesco?
Oggi posso farlo perché mischio il tragico con il brillante, che diventa comico. Tutto è un’arte. Io ho cominciato con la tragedia, in questo sono aiutata dalla mia voce, dalla mia conformazione. La tragedia penetra, come diceva Luigi Vannucchi, incide.

Francesco Bettin

Ultima modifica il Mercoledì, 07 Ottobre 2020 10:39

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