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Il discorso di Luca Barbareschi: «Siamo al collasso, si rischia di chiudere» di Nicola Arrigoni

Luca Barbareschi Luca Barbareschi

 

L'attore parlamentare parla del 'Discorso del Re' e della fine dei finanziamenti pubblici
Il discorso di Luca Barbareschi: «Siamo al collasso, si rischia di chiudere»

Fresco di debutto, Il discorso del Re di David Seidler, ha avuto uno spettatore d'eccezione alla prima romana, niente meno che il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. E dopotutto il testo di David Seidler – passato alla notorietà internazionale grazie al film di Tom Hopper – è alla fine una parabola sul potere del linguaggio e soprattutto sul legame della parola con l'esercizio del potere e del ruolo di governo. E in merito alla presenza di Napolitano alla prima romana Luca Barbareschi afferma: «E' stata una bella sorpresa. Il presidente Napolitano apprezza alcune mie fiction e produzioni. Mi ha scritto lettere molto lusinghiere, quando ancora non era Presidente della Repubblica».

Ma da qui ad avere la massima autorità della Repubblica in platea?
«Napolitano ama il cinema e il teatro. Non credo che un ruolo pubblico precluda la possibilità di mantenere le proprie passioni. Qualche tempo fa a New York ero a vedere uno spettacolo e avevo di fianco il sindaco della Grande Mela, presente come semplice cittadino. Insomma basta organizzarsi».

E lei in tema di organizzazione è un mago. Attore, produttore, parlamentare...
«Lavoro diciotto ore al giorno. Questa mattina sono partito da Ancona, sono andato in ufficio per mettere a punto i dettagli rispetto alle riprese del mio film su Olivetti, sono andato in Parlamento, ora saluto i miei bimbi e poi riparto per Ancona dove stasera ho spettacolo».

Il Discorso del Re, ovviamente... che porta in teatro dopo il grande successo del film di Tom Hooper?
«Conosco il testo di David Seidler da almeno dieci anni. Se l'avessi proposto allora nessuno avrebbe accettato, mi avrebbero detto, ma che cosa ce ne importa di Giorgio VI. Oggi dopo l'uscita del film allora la cosa è diventata fattibile. E' tipico del nostro provincialismo. Comunque è da vent'anni che io porto in Italia testi anglosassoni e la drammaturgia contemporanea».

E al di là dell'uscita del film, cosa l'ha spinta a mettere in scena il testo di Seidler?
«Il testo è bellissimo, più bello della sceneggiatura e in teatro funziona alla grande. E poi ci sono motivi di contenuto che fanno del Discorso del Re una commedia piacevole ma anche densa di contenuti».

Quali?
«Ciò che va in scena sono l'onore e gli oneri a cui devono far fronte coloro che gestiscono il potere. C'è poi la forza della parola che trasforma la realtà. Il logopedista che aiuta il futuro re è un attore fallito, che attraverso il legame col sovrano lo porta a superare la sua balbuzie e a parlare in pubblico, ma soprattutto a prendere su di sé le sorti dell'Inghilterra. Aggiungiamo poi che questa è una storia non solo inglese. La vicenda di Albert futuro Giorgio VI sta all'origine della nostra Europa democratica, Giorgio VI evitò apparentamenti nazisti del Regno Unito, all'indomani dello scoppio della seconda guerra mondiale. C'è poi un altro motivo meno legato allo spettacolo».

Ovvero?
«Io sostengo che da sempre lo Stato dovrebbe passare le spese dentistiche. Avere una dentatura sana è importante. Chi non ha denti fatica a mangiare, fatica a parlare e non può sorridere. Tutti elementi indispensabili per una vita serena ed equilibrata».

E questo il sorriso produce Il Discorso del Re?
«Ci si diverte, ma si riflette anche sul potere della parola e sulla sua forza di verità in teatro».

In politica, visto il suo ruolo da deputato?
«In teatro giocando nell'ambito della finzione si finisce col dire verità spesso sgradevoli. In politica si finisce sempre di raccontare la verità».

Deluso dall'esperienza parlamentare?
«Direi di no, ma se dovessi rifarla, lo farei con un ruolo di governo. E' un po' frustrante sentirsi sempre un peones. Checché ne dica la Gabbanelli io non perdo una seduta del Parlamento».

Il discorso del Re

E rispetto ai tagli e allo stato di perenne crisi dello spettacolo quale è la sua posizione?
«Finché i governi nomineranno ministri che non sono interessati al teatro, al cinema ma dico di più alla cultura la situazione non può cambiare. Oggi si rischia di chiudere sul serio. Io giro con la mia compagnia senza sovvenzioni ma è sempre più difficile».

Insomma i finanziamenti pubblici sono finiti?
«E' finita un'epoca e ora rischiamo il collasso. In Inghilterra ai tempi della Thatcher si decise di procedere alla privatizzazione, ovvero all'ingresso reale dei privati nel mondo della cultura con incentivi fiscali che rendevano importante investire in cultura. Oggi Londra è una capitale della cultura. Ciò permetterebbe di togliere la politica dai cda delle fondazioni e con imprenditori con grano salis in testa di lavorare adeguatamente su un patrimonio che il mondo ci invidia e su un sistema di spettacolo importante che dà lavoro e ha al suo interno grandi professionalità».

E invece?
«Si tassano gli operai e si lasciano partire dall'Italia capitali verso i paradisi fiscali. Ecco che cosa succede. Io sarei molto più radicale nelle riforme. Basterebbe bloccare conti correnti e flussi di denaro in odore di mafia ma non si fa nulla. Questo Paese sta affondando e non riusciamo a dargli una svolta adeguata».

La soluzione a tutto ciò?
«Ovviamente non è far cadere il Governo, ma è un'altra. Bisognava agire per una presa in carico dei privanti del mondo della cultura e dello spettacolo. Quello che accade nei paesi anglosassoni o in America qui è impensabile. Ad un certo punto si è deciso di interrompere il flusso di finanziamenti pubblici, teatri, musei sono diventati fondazioni con un effetto».

Quale?
«Dai cda sono usciti i politici, gli imprenditori che al di là degli indispensabili sgravi fiscali, hanno finanziato spettacoli o attività culturali l'hanno fatto con intelligenza e acume. Non è vero che il privato non può fare cultura, lo sostengo da sempre e non solo perché io con la mia compagnia giro senza alcun tipo di sovvenzione pubblica. Certo si tratta di un percorso lungo, fattibile, ma che in Italia non si è mai affrontato con serietà. Il risultato è che ora rischiamo di chiudere tutti, che il sistema culturale e dello spettacolo dal vivo è al collasso».

Ultima modifica il Giovedì, 21 Marzo 2013 09:58
La Redazione

Questo articolo è stato scritto da uno dei collaboratori di Sipario.it. Se hai suggerimenti o commenti scrivi a comunicazione@sipario.it.

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