La Notte, 17 gennaio 1976
Settantatré anni di vita non sono pochi. Diventano un tempo incalcolabile se si pensa di quante parole riuscì a riempirli, cominciando a scrivere all’età di sei anni, quel mostro di creatività ciclopica che fu Lope de Vega Carpio (1562-1635). Cosa non ha prodotto quel grafomane di genio?! Prosa, lirica, romanzi, saggistica in rima, epistolari, opere edificanti, e soprattutto teatro, teatro, teatro, quasiché i suoi settantatré volte settantatré. Del resto, non si racconta nulla di nuovo, ce lo insegnavano già a suola, quando a scuola si insegnava ancora qualche cosa.
Forse, e senza forse, nessuno al mondo, insomma, ha scritto – e “vissuto” nella sua frenesia vitale – tanto quanto lui. A leggerlo tutto, compreso, se fosse possibile, il non poco andato perduto, (solo di versi si stima che ne scrivesse qualcosa come dodici milioni!), calcoli alla mano, probabilmente non basterebbe una vita. Se si riflette che, pressappoco, nei medesimi anni, l’immortale e considerata cospicua produzione di Shalespeare, salvo errori, non supera – nel teatro – i quarantasette titoli, resta un mistero come, oltre ad imbrattare tutta la carta che imbrattò, quel portento abbia anche trovato il tempo per fare un altro fottìo di cose: andare a letto con non so quante donne, tra le quali tre mogli regolari con un totale di sette figli legittimi riconosciuti. Non solo, ma ciò non gli impedì di coltivare la vita mistica consacrandosi, prima di finir sottoterra, prete regolare; di arruolarsi per lunghi periodi sotto le armi, non escluso uno nella invincibile armada, senza considerare contraddittorio di trascorrere, inoltre, una mezza dozzina d’anni in carcere, e un paio in esilio, per il ratto di una giovine vergine e altre sconvenienze varie, senza cessare, con tutto ciò, di esercitare la professione di segretario presso un gran signore… Evidentemente, per quell’uomo lì, il tempo scorreva in una diversa dimensione che per il resto dell’umanità.
Considerato, a giusto titolo, il fondatore del teatro nazionale spagnolo, egli garantiva di essere in grado di scrivere un copione in una sola giornata, badando, contemporaneamente, alle sue abituali occupazioni. È stato calcolato che, di solo teatro, il suo repertorio annoveri milleottocento commedie e quattrocento “Patos sacramentales”. Si capisce che, in codesto gigantesco diluvio, travolgente di sbalorditiva facilità, di virtuosismo acrobatico, di eccezionale nitore di stile, di stupefacente naturalezza e vivezza e varietà dialogica, di grazia, finezza e cristallinità spesso incomparabili, sul tradizionale pedale della classica trimurti del “siglo de oro” della cultura iberica: Dio, il Re, l’Onore, c’è di tutto: commedie popolari, spesso e volentieri ispirate, o dedotte, da canzoni e leggende tradizionali, commedie romanzesche, cavalleresche, storiche, contemporanee, serie, comiche, didascaliche, mitologiche, religiose e chi più ne ha più ne metta, che coinvolgono cielo, terra ed ogni luogo, epoca ed evento. È un oceano senza fondo, nel quale naturalmente non manca la zavorra. Ma non mancano certo neppure le gemme nei più svariati generi, seppur nei motivi frequentemente ricorrenti o nello stile più proteiforme che varia e maschera la ripetitività di certe formule e di certi personaggi fissi, né poteva essere altrimenti.
Una delle gemme se non la gemma più fulgida, la cima, in altri termini di quell’Everest di carta stampata, l’originalità del tema e la musicale efficacia dialogica del verso, anche per la modernità per non dire l’implicita attualità dell’argomento, viene unanimemente considerato Fuenteovejuna (1618) felicemente rappresentato, ieri sera al San Babila, dal Teatro Stabile di Bolzano, in una libera traduzione in versi sciolti, applicata a un non meno libero adattamento alquanto riduttivo, compensato, però, una volta tanto, se Dio vuole, da una fedeltà, una coerenza, una chiarezza, una persuasività ineccepibili; e, ciò che più conta pur sembrando un paradosso, tanto più inconfondibilmente originale quanto meno eccentrico, del più “autore” dei nostri migliori registi: Alessandro Fersen.
Fuenteovejuna è il nome di una “commenda”, un feudo, dell’Ordine di Calatrava, un paese spagnolo ancora esistente (significa, alla lettera, “fonte delle pecore”) e la commedia, dietro alla quale stanno le rivolte contadine dell’epoca, è ispirata a un fatto storico del XV secolo, durante la lotta dei re cattolici contro la portoghese pretendente al trono di Castiglia Juana la Beltrameja.
Il “commendatore” Fernand Gomez, partigiano di costei, è un bieco tiranno che conculca e opprime in ogni modo e ogniminiosamente offende la “honra” – la dignità, l’onore – della popolazione, al punto da pretendere e da esercitare una sorta di “jus primae noctis” sulle novizie del luogo; né la sua arroganza e crudeltà si placano alla sconfitta della propria parte. Anzi, alle ripulse dell’interessata, giunge a far rapire, durante una cerimonia nuziale, la bella Lourenzia e a imprigionare il di lei fresco marito, Frandoso.
Sottrattasi per miracolo alle grinfie del suo persecutore, Lourenzia incita alla rivolta i compaesani, tanto che il triste prepotente viene massacrato a furor di popolo e la sua testa inflitta su una picca testimonia la vendicata honra degli oppressi. Sottomessosi alla sconfitta, il Gran Maestro dell’Ordine di Calatrava chiede, ai sovrani cattolici vittoriosi, giustizia contro l’assassinio del proprio ex plenipotenziario, essendo anche un’offesa mortale all’autorità regia; allora, in quella che è giustamente considerata la scena più alta e singolare di tutto il teatro di Lope, i ben trecento abitanti del borgo, fanciulli compresi, vengono interrogati e messi alla tortura per strappar loro il nome dell’uccisore. Ma invano, tutti rispondono, ad una voce, con una sola parola: Fuenteovejuna! A codesta grande prova di forza d’animo e dignità collettiva, i sovrani assolvono il paese, riconoscendo implicitamente che l’uccisione è stata un atto di legittima giustizia.
Pur rielaborandola non poco drammaturgicamente, tra l’altro facendo vivere alla ribalta, a chiarimento storico, fatti e particolari che, nell’originale, vengono solo evocati dal racconto; altri, insieme a non poche frondosità barocche, eliminandone e concentrandone; altri ancora proponendoli, posponendoli o alternandoli, Fersen ha capito e rispettato una cosa assai importante. Vale a dire che, circa i suoi eccezionali caratteri di attualità – coscienza popolare collettiva, sacrosanta collettiva, sacrosanta ribellione in nome di propri diritti umani, sociali, politici calpestati, giusta e coraggiosa denuncia della prevaricazione, malversazione, vessazione e soperchieria del potere e via discorrendo – la commedia parlava da sé, contenendo e bruciando tali temi nella propria universale specificità poetica; senza alcun bisogno di immiserirla con anacronistiche, riduttive, fasulle manipolazioni e interpolazioni arbitrarie, cronachisticamente appiccicate per forza, meschine e caduche, oggi di moda, in lungo e in largo, dagli sprovveduti profetucoli che infestano le nostre ribalte.
La regia dell’eccellente e personalissimo spettacolo, segue una propria sintassi gestuale e compositiva autonoma e inedita da cima a fondo, culminante nella feroce sequenza della sommossa e in quella della tortura. Essa trova un insostituibile sostegno nella funzionalissima struttura scenica lignea, a vari piani, su sfondo nero, di Lele Luzzati, specialista, al solito, nel far miracoli con nulla. Altrettanto dovrebbe dirsi degli eccezionali costumi, dagli accostamenti coloristici insoliti, di Santuzza Calì. E, giacché ci siamo, mettiamoci pure le dolorose musiche di Andrea Mascagni.
Ineccepibili, senza una sforatura, tutti i numerosi interpreti. I più impegnati si chiamano: Franco Mezzera, Marisa Belli, Adalberto Rossetti, Francesco di Federico, il Luongo, il Minucci, la Mazzeranghi, il Travaglini, il Milazzo e altri, certo, ne dimentico.
Carlo Terron