Small Island (Piccola isola) di Andrea Levy. Regia di Rufus Norris, costumi e scenografia di Katrina Lindsay, proiezioni di Jon Driscoll, coreografia di Coral Messam. Con Leah Harvey (Hortense), Aisling Loftus (Queenie), Gershwyn Eustache Jnr (Gilbert), CJ Beckford (Michael), Andrew Rothney (Bernard). Olivier Theatre al Royal National Theatre fino al 10 agosto 2019.
di Beatrice Tavecchio
Small Island è un successo immancabile. E' uno spettacolo che attesta la superiorità del teatro dal vivo sul cinema. Perché e come?
Le ragioni sono plurime e non solo tecniche oppure umane. Questo lavoro dimostra le possibilità del mezzo teatrale perché combina l'eccellenza umana e quella tecnica in un formato unico e indivisibile. Il teatro come nessun altro mass media lavora in stretto contatto con il pubblico, a sua portata di voce, di sudore, di lacrime, di riso, di tutte le emozioni che dai personaggi si ripercuotono sullo spettatore, suscitando quel sentimento di 'simpatia', inteso come connessione, che abbiamo nel nostro DNA. Se a questa presenza tridimensionale e in uno spazio fisicamente comune allo spettatore e agli attori, -diversamente dall'esperienza cinematografica che parla per immagini materialmente distanti e bidimensionali-, si aggiungono le meraviglie tecniche, apprese dal cinema e dalle altre arti, si ha un insieme come in Small Island incredibilmente potente e stimolante.
Se tutto questo fosse solo spurio intrattenimento non riuscirebbe a suscitare il durevole interesse del pubblico, se mancasse cioè un testo valido, il terzo vitale componente della drammaturgia. E Small Island, scritto dalla scrittrice Andrea Levy nel 2004, coronato dal premio Orange Prize for Fiction, la Whitbread Book of the Year Award e il Commonwealth Writer's Prize, nella riduzione teatrale della stimata ed affermata Helen Edmundson, ha tutte le carte in regola. Tratta un tema contemporaneo, quello dell'integrazione razziale, in un momento in cui il Regno Unito ed i suoi ministri sono ancora nell'occhio del ciclone per aver cercato di deportare migliaia di persone invitate a venire dai Caraibi ad aiutare la Madre Patria durante l'ultimo conflitto mondiale ed a contribuire alla Ricostruzione nel dopoguerra, chiedendo documenti impossibili da ritrovare, togliendo passaporti, permessi di lavoro, sussidi e perfino il diritto di accesso al sistema sanitario. Lo scandalo della Generazione Windrush, dal nome della nave che nel 1948, aveva portato questi immigranti dai Caraibi in Inghilterra, fece dimettere il ministro dell'interno Angela Rudd nel 2018, ma il problema non è ancora stato interamente risolto. Intolleranze razziali fermentano ancora sotto la superficie e riguardano tutte le minoranze. La questione della minima rappresentanza delle minoranze in tutte le posizioni che contano e anche nel teatro a livello attoriale e tecnico, è una preoccupazione presente.
All'attualità del tema, si unisce la bontà della storia che l'illustra. Questa segue temporalmente le vite di due donne Hortense, giamaicana, maestra, compassata e formale, più inglese degli inglesi, nutrita di Dickens e di Wordsworth in Giamaica colonia di sua maestà Re Giorgio VI, e Queenie, bionda inglese, figlia di macellai del Linconshire, senza inibizioni di razza, che ospita anche i "neri" nella Londra del dopoguerra per far quadrare il bilancio. Alle donne fanno da contrappunto i loro futuri compagni, Gilbert, Michael e Bernard, di cui si seguono le vicende durante la guerra. Gilbert giamaicano, volontario nella RAF, scopre la stretta segregazione di bianchi e neri nelle truppe americane stanziate in Gran Bretagna, ma anche l'incredulità degli inglesi nel trovarsi di fronte visi diversi ed il loro ostracismo. Al razzismo immotivato rappresentato dai vicini di casa di Queenie, fa da contrappeso durante tutto il lavoro il credo di Hortense e Gilbert di essere inglesi, la loro indomita fiducia nella Madre Patria, il loro senso di dignità e di onore.
La caratterizzazione dei personaggi è precisa sia nei tre principali che nei personaggi minori. La coralità dei quaranta attori in scena costruisce il contesto della società giamaicana o inglese. L'interpretazione di tutti gli attori è ineccepibile, ma la bravura di Leah Harvey nel delineare la cocciutaggine d'intendimento e di buone maniere, insieme alla cattiveria, ma anche al senso del ridicolo di Hortense; di Gershwyn Eustache Jnr nel rappresentare il buon umore ed il senso di dignità di Gilbert, di Aisling Loftus che calza il personaggio di Queenie così strettamente da sembrare inseparabile: la perspicacia, la forza di carattere che ricordano la tenacia delle donne durante la guerra e la ricostruzione.
La caratterizzazione non si avvale solo di espressioni del viso, ma investe il corpo degli attori, che lo usano espressivamente come nella cultura giamaicana. I costumi sottolineano la personalità dei personaggi, ben tagliati e decorosi per Hortense, con un tripudio di colori per la sua amica giamaicana Celia, eleganti quelli di Michael e Gilbert.
Il tutto è animato da una coreografia quasi continua circolare in senso orario e antiorario lungo il perimetro dell'immensa bocca del palcoscenico dell'Olivier Theatre. La scenografia trionfa con il curvo schermo del ciclorama sul fondo della scena, che si apre per rivelare un altro schermo rettangolare che ruotando può diventare altro. Altri arredi scenografici sono usati, ma solo espressivamente, per suggerire una scala, delle scale per suggerire una casa, un divanetto ed una sedia per suggerire un ambiente. Così che lo spazio illimitato della scena, invece di essere ingombrato e perciò ristretto dalla scenografia è lasciato aperto per glorificare le foto in bianco e nero del periodo storico -la carta geografica delle Indie occidentali, il villaggio inglese- o per esempio, per essere intriso dei colori del sole al tramonto in Giamaica. Mai il ciclorama rimane senza immagini o senza colore. Quando alla fine del primo atto un telone enorme tipo vela viene tirato a coprire il ciclorama e la foto in bianco e nero della poppa della nave Empire Windrush viene proiettata, mentre un alito di vento fa curvare la poppa della nave proiettata verso il pubblico, e quando dalla scaletta nascosta dal velo ma in silhouette per il pubblico, gli attori e Gilbert salgono a salutare Hortense che rimane sulla banchina, l'impressione è tale da superare per effetto qualsiasi proiezione cinematografica.
Rufus Norris, direttore artistico del National Theatre, dà qui una delle sue migliori regie impartendo allo spettacolo un ritmo trascinante, a volte turbinoso e a volte calmo, ma sempre in movimento come le onde dell'oceano che gli immigranti hanno attraversato.