La denuncia a teatro: Femminismo da Ibsen a Stef Smith
Nora A Doll’s House (Nora Casa di bambola)
radicale adattamento di Stef Smith del dramma di Henrik Ibsen
Regia di Elizabeth Freestone, scenografia di Tom Piper
musiche e suono di Michael John Mc Carthy
Con Natalie Klamar, Amaka Okafor e Anna Russell-Martin come Nora/Christine,
Luke Norris come Thomas (Torvald Helmer nell’originale)
e Mark Arends come l’usuraio
London,Young Vic Theatre, 5 febbraio - 21 marzo 2020
di Beatrice Tavecchio
Spezzato, riscritto, reinterpretato da Stef Smith, Casa di bambola diventa Nora, la protagonista. Messa in scena triplicata: Nora nel 1918 subito dopo la prima guerra mondiale ed il voto alle donne che tanto era costato alle suffragettes; Nora nel 1968, la data della legalizzazione dell’aborto in UK ed il periodo in cui si diffonde la pillola; Nora nel 2018 il periodo in cui scoppia il movimento femminista di rivolta me-too.
Ma come questi temi vengono inseriti nel testo di Ibsen, messo in scena nel 1880 a Copenhagen ed in Italia per la prima volta al teatro dei Filodrammatici a Milano nel 1891 con la grande Eleonora Duse?
Il testo di Ibsen, scritto per la maggior parte all’Albergo della Luna ad Amalfi, è tra i più importanti della drammaturgia mondiale. Sintetico, ma non scarno, ogni singola battuta trova il suo posto come in un orologio ogni singola rotella serve a far funzionare l’ingranaggio. Per gradi penetra e scopre la maschera del buonismo maschile che cela una visione della donna come inferiore e secondaria alla sua e a quella dei figli. È un testo femminista che a cento quarant’anni dalla scrittura risulta ancora rilevante e potente. Per questo Stef Smith lo ha scelto ed il suo adattamento eviscera, mette in luce ed aggiunge alle distorsioni che purtroppo sono ancora presenti nella psiche maschile, vedi i femminicidi.
Nora, per salvare il marito dalla malattia, si indebita falsificando la firma del padre. L’usuraio a cui era ricorsa perde il posto licenziato dal marito di Nora diventato direttore della banca in cui lavora, e per riaverlo la ricatta minacciandola e poi svelando al marito l’illecito da lei perpetrato. Torvald, il marito, accusa Nora di averlo rovinato, le toglie il suo appoggio ed affetto e la bandisce dai figli. L’usuraio si pente per intercessione di Christina, l’amica di Nora e ritira l’accusa. Torvard chiede perdono, ma Nora abbandona lui ed i figli e lascia la casa dov’era una bambola per trovare se stessa, le proprie idee, la propria personalità.
Le tre Nore in scena diventano le tre Christine e viceversa. I ruoli sono alternati con il minimo cambiamento nei costumi che rappresentano le tre diverse epoche. I ruoli maschili rimangono invece fissi se non per i minimi cambiamenti di vestiario. Un palco proiettato a tutto tondo fra il publico, tre telai di porte contornati da luci al neon per le entrate e le uscite, una per ogni Nora. Ma le tre attrici sono costantemente presenti in scena, coreografate secondo linee oblique o parallele, in piedi o sedute, circolanti sulla scena ma secondo uno schema che le rende costantemente visibili. Lo stesso dicasi per le battute, mai sovrapposte o poco chiare. La musica si attiene a quest’andamento, soffici tocchi di piano, lunghi momenti di silenzio in cui solo le parole spiccano, tre colpi di bacchetta a sottolineare un momento importante. Quello che avrebbe potuto essere un miscuglio troppo ricco di ruoli e di storie, è in effetti un allestimento chiaro, stilisticamente e volutamente, semplice. La storia ibseniana, raccontata in alternanza dalle tre Nore/Christine, rimane inalterata per contenuto e andamento temporale, ma su questi si aggiungono corti monologhi delle protagoniste ad introdurre i loro diversi periodi storici insieme ad incursioni di motivi contemporanei, ma sempre legati a suggestioni della scrittura originale: il legame tra Cristina e Nora diventa un suggerimento di legame lesbico, la maternità ed i figli sono visti anche come un travaglio, le difficoltà finanziarie sono presenti in tutte le età così come le prevaricazioni del maschio. Il finale rimane senza molte concessioni: la prima Nora muore nel gelo, la seconda, come dall’originale, si rifugia da Christina, la Nora attuale aspetta l’autobus sotto la pensilina e vede i marito che viene verso di lei, ma lontano nell’oscurità. Il messaggio è ancora quello valido allora, quando le donne cercavano la loro voce ed il diritto al voto alla fine del novecento, come adesso: Nora non può più giocare a fare la bambola ed essere succube intellettualmente e socialmente al maschio/marito.
Nel complesso la novità di questo lavoro sta nella sua coralità di scrittura e di interpretazione, coralità che ricorda quella di Caryl Churchill che Stef Smith dice di ammirare.
Inoltre la scrittura di Stef Smith semplifica il linguaggio di Ibsen, a volte troppo, e lo rende contemporaneo, popolare. Allo stesso tempo ne estrae il succo, dichiara l’idea che lo sottende, così che il messaggio è apertamente capibile. Quasi a rendere ancora più tangibile e comprensibile a tutti quello che Ibsen specie nel suo finale aveva già esplicitato.
Le tre brave attrici hanno stili interpretativi diversi, il ché le rende distinguibili ma allo stesso tempo la loro recitazione e lo scambio continuo dei ruoli risultano corali. Delle tre Amaka Okafor si distingue per dizione, ritmo e pause. Luke Norris nei panni del marito è impeccabile e veritiero nel trasmettere quel misto di affetto e tracotanza che sfocia in un senso di minaccia e di appena repressa violenza del maschio dominante. Memorabile l’interpretazione anche di Mark Arends, l’usuraio, credibile nell’esprimere rabbia e risentimento per la sua vita di stenti e l’angoscia per i suoi figli.
Questa co-produzione del Young Vic di Londra ed del Citizens Theatre di Glasgow, dove questo lavoro era originato nel marzo 2019, è un successo celebrato dal pubblico numeroso e giovane che questo teatro attrae.