«Siamo diventati tutti una grande famiglia, con tutto quello che vuol dire diventare parenti, la parentela non garantisce l’accordo». Così si raccontava Gigi Dall’Aglio in Principi e prigionieri di Amedeo Guarnieri e Lucrezia Le Moli Munck, documentario dedicato alla storia della Compagnia del Collettivo oggi Fondazione Teatro Due. In queste parole si crede ci sia - in estrema sintesi – l’uomo e l’artista Gigi Dall’Aglio, il suo sguardo, mai tranquillizzante, la fatica di non accontentarsi delle prime apparenze, ma lo sforzo continuo di andare oltre, di guardare al significato nascosto delle cose, delle parole, fino a scorgerne il sorriso a tratti beffardo, ironico, se non schiettamente comico. Dietro quella comicità bonaria che era anche il sorriso accomodante e indagatore di Gigi Dall’Aglio c’era il suggerimento che non tutto è così come appare. Nelle sfumature, nel semplice alzare un sopracciglio, nel guardarti di sbieco Dall’Aglio – attore e regista – indicava la via che non ti aspetti, la verità che non vuoi ascoltare, proprio come nella consapevolezza che in quell’essere tutti parenti del Collettivo ci fosse l’amletico dilemma del sentirsi principi e prigionieri al tempo stesso. Ecco questo sguardo amicale, ma che non faceva sconti mancherà alla grande famiglia del Teatro Due e mancherà al teatro italiano.
Gigi Dall’Aglio a 77 anni si è fatto ingannare dal Covid-19, si è fatto cogliere di sorpresa, lui che spesso con i suoi spettacoli e i suoi azzardi interpretativi sapeva sorprendere, suscitare domande. E dopotutto questo dovrebbe fare il teatro: porre interrogativi. Dall’Aglio lo trovavi in platea defilato, attento a ogni movimento intorno a sé, presente, vigile, ma mai prevaricatore, mai desideroso di stare sotto i riflettori, se non quando recitava, ma anche lì, prestava tutto se stesso per farsi altro e non per imporsi. La casa del Teatro Due era casa, ma non per questo Gigi Dall’Aglio aveva rinunciato al piacere del teatro ramingo, principe nel suo essere attore e regista sempre in cerca di nuove sfide. Nei panni di Bottom nello storico allestimento del Sogno di una notte di mezza estate per la regia di Elio De Capitani e Ferdinando Bruni diceva di essersi divertito a fare l’attore di giro, lui che era fra i fondatori della Compagnia del Collettivo e che guardò con interesse, ma anche con qualche dubbio alla necessità di trovare una casa a quell’esperienza giovanile, esigenza maturata – insieme a Walter Le Moli e alla numerosa compagine attoriale - nello Stabile di Parma.
Porta la sua firma registica L’Istruttoria di Peter Weiss, spettacolo che il Teatro Due ripropone ogni anno, col medesimo cast, uno spettacolo duro, eppure umanissimo, uno spettacolo d’impegno politico e civile che chiede al pubblico di farsi testimone degli orrori dell’olocausto degli ebrei. Ecco in questo spettacolo creato agli inizi degli anni Ottanta dopo le esaltanti esperienze en plein air, di decentramento culturale, di battaglie politiche e civili condivise col Collettivo rimane forte l’impronta di responsabilità etica che per Dall’Aglio doveva avere il teatro sia quando il regista metteva in scena Shakespeare che quando affrontava i testi di Mayorga, sia nell’interrogarsi sui classici che nel trovare nuove vie di racconto e di drammaturgia per la compagnia del Teatro Due e per la sua curiosità di artista. E allora nel suo affrontare i grandi testi di Shakespeare, Goldoni, Sofocle – solo per citare alcuni autori con cui si misurò -, Gigi Dall’Aglio non si limitava a ‘rappresentare’ il testo, ma faceva della drammaturgia un pre-testo, senza tuttavia scardinare l’impianto generale della scrittura scenica, ma aggiungendo a questa una serie infinita di riferimenti, idee, immagini e suggestioni.
Così accadeva nel suo Giulio Cesare – era la fine degli anni Novanta - in cui Dall’Aglio affidava l’esemplarità morale dell’intero testo e la ragione della sua messinscena alla battuta finale: «Insomma, il solito schifo», su cui calava il buio. Quello ‘schifo’ si presentava per Dall’Aglio come un’eredità di pensiero che inevitabilmente avvicinava il racconto shakespeariano, rendendolo esempio dei meccanismi del potere. Così pure la sua Bottega del Caffè era un luogo in cui si incontrava la gente più strana e bizzarra. Così i clienti della bottega erano borghesi, ma anche extracomunitari, una sorta di società multietnica che guardava alla nostra realtà, ma non è poi troppo distante dalla Venezia settecentesca, ancora in parte legata alla sua vocazione mercantile e per questo ‘terra di passaggio’.
Ed è in questo suo sbilanciarsi sempre e comunque nel qui ed ora del teatro e nella sua inesauribile tensione al contemporaneo che Dall’Aglio ha letto i tre lai di Giovanni Testori in una felice collaborazione con Arianna Scommegna a cui regala il suo sguardo di regista colto e attento, ma soprattutto al servizio di un’interprete di talento come Scommegna. È il mondo che entra in teatro, è l’attualità, il contemporaneo che Dall’Aglio va cercando, interrogando i classici o concedendosi sfide come – solo per fare un esempio – la messinscena del L’Angelo sterminatore, libera riduzione teatrale dell’omonima pellicola di Luis Bunuel, una sorta di rito laico giocato con la crudeltà di un massacro lento ed inesorabile. Gigi Dall’Aglio con L’Angelo sterminatore diede vita ad un suggestivo affresco teatrale, utilizzando tutte le forze attoriche dello Stabile di Parma, costruendo un apologo sui meccanismi della violenza borghese, confermando la determinazione dell’attore/regista di mettersi sempre alla prova, regalandosi una certa piacevole sensazione nel discendere nel buio dell’anima e della società.
Ed è questa satiresca volontà di guardare in faccia il dolore, la sofferenza, l’indicibile per spuntarne le unghie con un sorriso bonario e uno sguardo che sembra dire: «Ma non prendiamoci troppo sul serio» che mancherà di Gigi Dall’Aglio, portato via dal Covid che ha privato il teatro di Parma e il teatro italiano del suo spiazzante, ma gentile sguardo indagatore e interrogante. Giù, il sipario!