Due film, usciti nelle sale a poca distanza l’uno dall’altro si occupano, in maniera diversa, di teatro. Il primo, “Qui rido io”, è impregnato di teatro già nelle premesse; il secondo, “Drive my car”, vede il teatro svilupparsi come il rispecchiamento del nucleo più profondo della vicenda del protagonista.
Il primo è un film biografico, la vicenda di Eduardo Scarpetta, vista nel suo strettissimo intreccio tra teatro e vita, compagnia e famiglia, tradizione e innovazione e si svolge a Napoli, all’inizio del secolo scorso. Il secondo, tratto da un racconto di Murakami, segue da vicino la storia di un regista e attore teatrale che, dopo una tragedia familiare, si immerge nel teatro come nel nucleo più incandescente del proprio destino, ed è ambientato in Giappone, ai nostri giorni.
Il teatro al “cinema-cinema” (che è cosa diversa da quello che con poco felice ma facile sintesi potremmo definire “cinema-teatro”, nel quale spesso il regista viene dal e torna periodicamente al teatro, e il teatro è visto per forza di cose dall’interno) è spesso un luogo che rimane sullo sfondo nella vita dei protagonisti: vi si vede magari l’attore preso dalle pastoie della propria vita quotidiana, e solo ogni tanto a teatro, di straforo, episodicamente, al momento degli applausi o delle battute finali del dramma. Fuori da lì l’attore segue sue proprie rotte tra stanze d’albergo o case dove circolano alcolici, belle donne, si dipanano feste, incontri, mentre tutt’intorno rumoreggiano metropoli a pieno ritmo. L’attore è un separato dalla vita, e nella nevrosi che ne segue giacciono involuti il dramma o il trionfo. In “Qui rido io” siamo immediatamente di fronte al teatro, con gli attori in procinto di entrare in scena; dal camerino sentiamo le battute degli altri sul palco, c’è un’atmosfera di attesa vitale e rilassata, un’energia avvolta nelle proprie spire; vediamo qualcuno la cui vita si identifica con quello spazio, con quell’attesa, senza che si percepisca la separatezza tra camerino e scena e, più tardi, tra vita privata e teatro. E’ un Toni Servillo spaparanzato su una sedia che addenta un quarto di pizza ad aprire il film: quell’addentare e quel suo entrare in scena di lì a poco paiono trasfondersi l’uno nell’altro: sono due gesti pieni di un’attitudine divoratrice, la gioia animale del predatore sicuro di sé. Addentare la pizza e addentare il pubblico, la scena, i colleghi attori, le donne è un tutt’uno. Lo si percepisce immediatamente grazie soprattutto a un Servillo perfettamente calato nel ruolo.
Nel film di Martone assistiamo a frammenti di commedie celeberrime: la scena famosa degli spaghetti di “Miseria e nobiltà”, mutuata dalla versione cinematografica, quella del balzo sul tavolo e degli spaghetti in tasca del film con Totò; sentiamo il tormentone “Vincenzo mi è padre a me” passare di bocca in bocca da Titina a Eduardo, suggello di un’eredità artistica che si tramanda; assistiamo all’ingresso in scena del don Felice Sciosciammocca scarpettiano, il suo prendersi gli applausi prima ancora di proferir parola; e poi un fulmineo saggio di corporeità d’attore, ricreata alla luce di un personaggio – Sciosciammocca – che è ancora interamente maschera, benchè di matrice borghese e non popolare, quando don Felice avanza verso il pubblico del teatro inquadrato di spalle. E non si può non notare come alcuni suoi tratti – il bastoncino di canna, il cappelluccio a strette falde in bilico sul capo, il pantalone largo e la camminata a passettini nelle scarpe enormi – rimandino allo Charlot di Chaplin. Libera invenzione d’attore avallata dal regista o ricostruzione probabile?
Per provare a rispondere giova riguardarsi la bella biografia di Eduardo scritta da Maurizio Giammusso e pubblicata da Mondadori nel 1993, nella parte in cui parla appunto della creazione di Scarpetta: “Il suo abitino a quadretti striminzito, le scarpine da ballo e il cappello dalle falde strettissime, connotavano il nuovo personaggio del “mamo” (…). Se anziché su un palcoscenico fosse nato su uno schermo napoletano, oggi ci sembrerebbe piuttosto simile a Charlot, del quale possiamo comunque considerarlo un antenato”. Genealogie.
Ma è chiaro che qui si sta parlando, come dicevamo, di un film sul teatro fatto un regista e da un cast che viene per intero o quasi dal teatro. Per questo non si può non paragonarlo a un altro capolavoro, che al cinema parla di teatro e svela al teatro qualcosa di se stesso attraverso il cinema, come il “Molière” di Arianne Mnouckine e del suo Theatre du Soleil. Lì, forse più che qui, risuona forte l’eco della vita e della passione teatrale dell’autrice e dei suoi compagni che si trasfonde nella pellicola per intercessione di un’altra vita teatrale, quella leggendaria del grande drammaturgo francese (e della sua troupe).
“Drive my car”, di Ryûsuke Hamaguchi
Se ci spostiamo sul versante del giapponese “Drive my car”, di Ryûsuke Hamaguchi, vediamo invece un film di “cinema-cinema” che pare voler fornire della vita del teatro una rappresentazione di maniera, seguendo le linee di un cliché di stampo europeo – senza nulla togliere al valore della pellicola, che è un lancinante, maestoso, lento dipanarsi lungo il mistero di un tradimento (che diventa scavo nella psiche del protagonista, quando tutta la vita della di lui consorte, morta improvvisamente, si rivela una catena di finzioni e omissioni) condotto per lunghi primi piani dove volti sul limite dell’impassibilità paiono alludere a una statuaria del tempo.
Ma torniamo alla rappresentazione del lavoro del teatro che il film mostra: gli attori si muovono tra algide audizioni e prove a tavolino (tranne che in una scena, ambientata in un parco), nella cornice iperistituzionale di un ente teatrale di stato. La lettura del testo è la prima fase di approccio alla produzione, in un’aula scabra, dalle luci fredde; l’insistenza del regista teatrale sulla lettura come argine alle sbavature emotive o tonali, specie di un giovane attore di provenienza televisiva (amante segreto e poi svelato della compianta moglie del regista) è una nota già meno stereotipata, più vicina al sentire di un uomo di teatro, anche se si tratta più che altro di un escamotage per mostrare l’irruenza emotiva del giovane attore, cosa che peraltro, più avanti, lo metterà nei guai.
E qual è il testo che si sta mettendo in scena? “Zio Vanja”, va da sè. Cioè uno dei monumenti del teatro europeo in assoluto: primo cliché. All’inizio avevamo visto un “Aspettando Godot”: anche lì, di volo, fulminea gag finale, inquadratura della platea plaudente (e gremita, a indicare la notorietà dell’attore) e poi camerino con strucco. Cliché rafforzato dallo straniamento della situazione: è possibile immaginare che nel Giappone di oggi si possa mettere in scena un autore come Cechov con modalità da teatro di regia europeo, senza che almeno in trasparenza si intraveda qualche riferimento alle antichissime e potenti tradizioni sceniche e drammaturgiche giapponesi? (si pensi al Nō, al Kabuki e alle riscritture dei drammi Nō da parte di Mishima). Una cultura e tradizione teatrale altrettanto ricca e complessa di quella occidentale (e più antica) qui è come cancellata, per una sorta di colonialismo di ritorno. Ma questo è un problema del film o del teatro giapponese attuale? Certo forse al regista non interessava lavorare su questo aspetto, ma rimane il dubbio se questa rappresentazione si riferisca o meno a un effettivo stato dell’arte attuale. Così, pensando agli elaboratissimi trucchi del Kabuki o alle raffinate danze dell’energia del Nō, assumono un triste risalto i baffetti finti che vediamo penduli al Vanja orientale o le gestualità da filodrammatica degli attori giapponesi alle prove. Sarà allora che, per la legge non detta o scritta della irriducibilità, per quanto permeabile, del proprio DNA culturale, la “giapponesità” teatrale emerga da altri elementi, magari più sottili, meno visibili? E’ quanto viene da pensare di fronte a due elementi. Il primo: la recitazione degli attori; come si diceva, quella sorta di impassibilità vibrante che scolpisce nel tempo le emozioni dei personaggi, allontanandole e cristallizzandole, che richiama la compostezza, l’energia rattenuta che si vede per esempio nel No. Il secondo è ravvisabile in una trovata che, stando alla intenzioni, dovrebbe indicare la carica innovativa della messa in scena (e che a uno spettatore abituale del teatro di ricerca contemporaneo appare quasi risibile): cioè il fatto che il personaggio di Sonja, impersonato, nella finzione del film, da un’attrice sordomuta, parli con il linguaggio internazionale dei segni. In tal senso è emblematica la scena finale, cui assistiamo integralmente nell’ultima inquadratura, quella che sancisce il successo della prima a teatro: lei in piedi dietro a Vanja seduto, quasi ne abbraccia la testa, cui intesse attorno movimenti precisi delle mani – è la celebre chiusa di Sonja – con la grazia accesa di un’ape intorno a una corolla. Lo si potrebbe anche vedere come una sorta di saggio, traslato, della precisione e della potenza gestuale tipica della tradizione teatrale nipponica?
Per concludere. Nel film di Martone prevale la rappresentazione di quel mondo teatrale all’antica italiana, di matrice capocomicale: qualcosa che fino a noi è arrivato, che afferma una continuità purchessia. Non sarebbe infatti strano figurarsi che alcuni modi operativi possano riguardare anche il lavoro che lo stesso Servillo svolge a teatro con i suoi attori, fatti i debiti distinguo e al netto di quanto il mutato contesto storico abbia potuto cambiare nel rapporto con il pubblico o nell’organizzazione di compagnia. Nel film giapponese questa continuità con una propria tradizione pare interrotta, prevale la visione di un teatro standard, un cliché intenazionale di spettacolo d’arte, che non produce asperità, ruvidezze, nodi problematici, nel calarsi, come fa, in una cultura radicalmente diversa; più il calco di un teatro europeo visto da oriente senza vera distanza critica o autentica assimiliazione; diversità che invece nel linguaggio autorale di Hamaguchi prende decisamente forma.
Si potrebbe dire che la forma teatrale nel film di Hamaguchi è una forma morta in un linguaggio filmico vivo, mentre quella del film di Martone è una forma teatrale ancora in certo qual modo viva dentro a un linguaggio filmico integrato al teatro. Se nel film giapponese il teatro pare pretesto per fornire uno specchio ai nodi irrisolti della vicenda del protagonista – in un film cui comunque si può attribuire senza incertezze il crisma del capolavoro – nella pellicola italiana il teatro è ancora carne viva nella carne viva del cinema di Martone.
Franco Acquaviva