martedì, 05 novembre, 2024
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Viaggio con Ágotha Kristóf al termine dell’infanzia. Conversazione con Luigi De Angelis, regista della "Trilogia della città di K". -di Nicola Arrigoni

"Trilogia della città di K", regia Luigi De Angelis. Foto Masiar Pasquali "Trilogia della città di K", regia Luigi De Angelis. Foto Masiar Pasquali

«Non si può spiegare tutto, non fa bene. Sull’esilio, sulla morte, sul dolore non c'è molto da dire. Sono fatti. Tutto qui.» Sono parole di Ágotha Kristóf, parole che cercano una fattualità dell’accadere che è destinata inevitabilmente a sciogliersi nella molteplicità dei punti di vista.  Lo sguardo narrate dei gemelli Lucas e Klaus ha come scenario la guerra che incombe, l’abbandono della casa natale. Il Grande Quaderno, La prova e la Terza menzogna sono le parti della Trilogia della città di K., romanzo ambientato negli anni della Prima Guerra Mondiale, ma che non esplicita le coordinate storiche per proiettarsi in una sorta di assolutezza del racconto. mediato dalla testimonianza dei due protagonisti Lucas e Klaus. La Trilogia della citta di K., messo in scena da Fanny & Alexander, è una sorta di chiamata condivisa da Federica Fracassi e accolta dal Piccolo Teatro di Milano e dal suo direttore Claudio Longhi in uno sforzo produttivo potente e inventivo che mette alla prova la tenitura dei linguaggi e ne esplora le potenzialità.

«Per questo uno spazio come il Teatro Studio Melato è parso il luogo adatto per realizzare la nostra Trilogia della città di K., un progetto condiviso in primis con Federica Fracassi che ci ha voluto coinvolgere in questo suo sogno che è diventato anche il mio e di Chiara Lagani e degli attori in scena: Andrea Argentieri, Consuelo Battiston, Alessandro Berti, Lorenzo Gleijeses. A questi si affianca la partecipazione, in video, di Fausto Cabra, Anna Coppola, Alfonso De Vreese, Giovanni Franzoni, Marta Malvestiti, Mauro Milone, Renato Sarti; in voce, di Chandra Candiani, Renzo Martinelli, Woody Neri. Mi sembra giusto partire da qui, da questa voglia – comune – di farci guidare dal linguaggio, dalle parole di Kristòf e da una storia che trascende il tempo e lo spazio», spiega il regista Luigi De Angelis in una pausa delle repliche dello spettacolo. E De Angelis si concede a una riflessione sulla messinscena in replica fino al 21 dicembre in un luogo speciale: «Hanno riallestito per me il camerino al quarto piano che fu di Giorgio Strehler, un onore e una grande emozione. È questo un luogo in cui posso studiare, lavorare, pensare a come va, sera dopo sera, lo spettacolo, è uno spazio che riverbera teatro e la magia del teatro, quello del Faust di Goethe, una delle grandi imprese strehleriane».

Dalle sue parole nella realizzazione della Trilogia della città di K. si avverte la sensazione dell’irripetibilità, di un punto di svolta o di passaggio per Fanny & Alexander, compagnia che delle incursioni letterarie e teatrali ha fatto un suo tratto distintivo.
«Ed è così. Lo spettacolo è una macchina tecnologica complessa in cui gli attori in scena convivono con fantasmi in video, con schermi che delineano lo spazio. Tutto è pensato per questo spazio e tutto è stato possibile grazie alla capacità unica del Piccolo Teatro di Milano di essere luogo di creatività, un mondo dove i sogni diventano realtà, grazie non solo all’intuizione e al pensiero creativo di attori e registi, ma anche a uno staff tecnico di grande qualità e straordinaria preparazione. Faccio solo un esempio. Prima di iniziare a lavorare ho saputo che la squadra che avrebbe operato con me e Chiara Lagani aveva letto la trilogia, era già dentro alla produzione ancora prima di iniziare. L’esito di questo lavoro è frutto di un staff creativo e tecnico e di una cura che ho ritrovato solo nei grandi teatri europei e, molto spesso, in occasione di produzioni liriche». 

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"Trilogia della città di K", regia Luigi De Angelis. Foto Masiar Pasquali

E tornando alla materia, al punto di partenza della messinscena non si può non osservare come la Trilogia della città di K. sia una di quelle opere che per alcuni risuonano come disvelamento di verità inaudite o sono motivo di messa in discussione di sé. È accaduto a Federica Fracassi che vede nel libro di Kristòf una piacevole ossessione. Cosa ha spinto Fanny & Alexander ad accogliere la proposta di Fracassi?
«Alla base di questa avventura, un poco folle ma di grande soddisfazione, c’è un aspetto personale che è determinante per capire il perché la proposta di Federica Fracassi sia subito risuonata in me e in Chiara Lagani. Chiara e io abbiamo iniziato a lavorare insieme quando avevamo sedici anni, a Ravenna. Ho conosciuto Chiara grazie a sua madre, Loretta Masotti, che era la mia insegnante di storia e filosofia al liceo classico. Alla fine degli anni Novanta, fu lei a regalarmi Trilogia della città di K., un libro in quel momento importantissimo, scioccante, e fu lei a farmi conoscere Chiara. Ci sono dei fili che si riannodano, in questa proposta di Federica, e l’idea di poter fare qualcosa insieme è stata un regalo grandissimo».

Venendo allo spettacolo l’impressione è che La Trilogia di K non sia solo uno spettacolo, ma è un’esperienza immersiva che risucchia lo spettatore, senza mai dargli una certezza. Al tempo stesso sembra potente e chiara la maturità del vostro agire, viene in mente il lavoro su Alice, ma anche gli spettacoli dedicati al Mago di Oz. In un certo qual modo storia e lingua s’intrecciano in molti dei vostri lavori. E qui tutto accade in maniera amplificata e intensa.
«C’è un aspetto narrativo, legato al romanzo e un altro aspetto linguistico, legato alla lingua in cui Kristòf ha scritto il romanzo: il francese, non la sua lingua materna, ma la lingua dell’esilio, della separazione dalla sua città natale. E dopotutto di questo si parla nel romanzo. Della fuga dalla città natale dei due gemelli Lucas e Claus con la madre, del loro affidamento alla nonna matrigna nel Grande Quaderno che li allena al dolore e ne cancella i sogni infantili, per poi passare alla seconda parte La prova in cui si assiste ad un apparente ritrovarsi o riannodarsi della vicenda, una vicenda scritta in terza persona. La storia si chiude – se così si può dire -  con La terza menzogna che ribalta gli scenari e infondendo il dubbio sulla veridicità delle altre due parti (la prima e la seconda menzogna?). In tutto questo la storia prende corpo, come non mai, dalla lingua, dal suo ritmo, in uno scenario che è uno scenario di guerra con al centro un’infanzia violata e negata o meglio allenata a resistere a tutto, al dolore, ma anche alle emozioni e ai sogni. La Trilogia della città di K. è un libro duro, che non lascia molte speranze…».

Lei e Chiara Lagani amate confrontarvi con i testi narrativi, basti pensare a Sylvie e Bruno di Lewiss Carroll, Il meraviglioso mago di Oz di Frank Baum, ma anche alla trilogia dell’Amica geniale della Ferrante, per non dimenticare Se questo è Levi. Insomma un terreno non sconosciuto per la sua regia e per la scrittura di Lagani.
«Nel primo atto è Federica Fracassi che nei panni di Ágotha Kristóf dà corpo e voce alla storia e lo fa con una lingua quasi telegrafica, con un accento straniero. Si parte da una consapevolezza che usare le parole ha un suo peso specifico e come dicono gli stessi gemelli/Kristóf i verbi che parlano dei sentimenti non possono essere usati a caso. Federica Fracassi è al tempo stesso la scrittrice e uno dei gemelli, la troviamo alla sua scrivania, luogo delle epifanie del racconto che prende corpo e voce davanti agli spettatori. Il racconto è epifanico grazie all’apparire dinamico di 21 schermi che trasformano lo spazio ed evocano i personaggi che le si disegnano dentro nell’atto stesso della scrittura. È come se entrassimo nella sua mente. La seconda parte vede come protagonista Lucas che fa ritorno a casa e da tutti è considerato “lo scemo” del villaggio, un ritorno che lo porta a confrontarsi con Mathias, frutto della relazione del padre con Jasmine. Mathias è un bambino prigioniero del suo corpo ed è lì che ci guarda in una grande statua sul modello di quelle realizzate dallo scultore Ron Mueck. È un enorme bambino di due metri e passa che incombe su tutto e tutti. Il terzo atto, quella Terza menzogna, ribalta la prospettiva e diventa evidente come alla fin fine la scrittura per Ágotha Kristóf sia un modo per riconnettersi con i luoghi e i tempi dell’infanzia. Tutto questo ha trovato nella riscrittura di Chiara Lagani un atto di assoluto rispetto nei confronti del romanzo e del pensiero linguistico che lo rende unico e interrogante». 

In tutto questo le parole e il racconto hanno una loro potenza visionaria e linguistica che conferma Fanny & Alexander come una compagnia che non si limita a fare spettacoli, ma a dare immagini, spazio e tempo al pensiero.
«Sono partito dalla soggettiva del lettore che, affrontando un libro come questo, si trova davanti a una serie di porte: può varcarne una per rientrare da un’altra, attraversando in lungo e in largo il romanzo. Quando Federica ci ha parlato del progetto, mi sono immediatamente formato un’immagine che era quella dell’allestimento pensato da Lina Bo Bardi per il MASP, il Museo d’Arte di San Paolo del Brasile: l’architetta dispose le opere della collezione non secondo la modalità abitualmente seguita dai musei. Nel suo progetto, i dipinti di epoche diverse coesistono nello stesso spazio, sospesi, come se volassero nel vuoto, non se ne vedono i titoli, ma è il visitatore che, a seconda della propria affettività, seguendo un impulso emotivo, è attratto da un’opera o da un’altra».

C’è una sorta di coesistenza temporale e spaziale che non appartiene alla nostra cultura?
«Il tempo lineare – sostiene Bo Bardi – è un’invenzione dell’Occidente. Il tempo non è lineare, è un meraviglioso groviglio dove, in qualsiasi momento, possiamo scegliere punti e inventare soluzioni, senza inizio e senza fine». Questa visione mi ha riportato alla sensazione provata leggendo i tre libri della Kristóf e abbiamo voluto tradurla nello spettacolo che abbiamo costruito, un groviglio meraviglioso per il metodo di recitazione utilizzato, in cui gli attori sembrano governati da fili e per i video sospesi nel vuoto, grandi icone affidate alle mani dei tecnici, anche loro parte dell’enorme matassa che insieme cerchiamo di governare».

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"Trilogia della città di K", regia Luigi De Angelis. Foto Masiar Pasquali

Un meccanismo che necessita di uno spazio ad hoc, per questo considera la Trilogia della città di K. irripetibile?
«Se l’irripetibilità sta nel dna del teatro, in questo caso lo è a maggior ragione perché lo spettacolo e la macchina scenica che abbiamo costruito insieme ai tecnici del Piccolo Teatro ha nel Teatro Studio Melato il suo luogo deputato e diversamente non potrebbe essere. Più che in altre sale, qui ogni spettatore ha la possibilità di creare una propria personale visione, generando una molteplicità e una complessità di ipotesi che corrisponde sia all’idea labirintica alla base del romanzo, sia a quello che ciascuno di noi è. Sempre la madre di Chiara, la mia insegnante, ci portò a vedere il Faust di Goethe, allestito da Strehler in questa sala, con le scene di Svoboda: fu un evento di svolta, nella mia vita, perché mi suggerì la possibilità di una messa in scena complessa, dinamica, che coinvolgesse tutta l’architettura del teatro. Nel teatro accanto, vidi poi Lolita di Nabokov, diretto da Ronconi, un’altra regia che utilizzava una prospettiva quasi cinematografica: ragionare su un progetto che onorasse queste memorie visive è stato molto stimolante».

In che senso questi riferimenti entrano nell’invenzione della Trilogia della città di K
«Si tratta di lavori non solo complessi, ambiziosi, tecnicamente impegnativi, ma anche di occasioni in cui il racconto e la riflessione sul linguaggio coesistono e il teatro si dimostra uno straordinario luogo di pensiero in cui lo spettatore è coautore di ciò che accade in scena. Alla base dello spettacolo è, infatti, l’idea della soggettiva dello sguardo: il primo atto contiene la soggettiva di Ágota, i suoi pensieri, che si materializzano in una dimensione non prospettica, continuamente rompendo la frontalità della visione, in cui possono coesistere più immagini interiori, frantumate, come in una tavola atlantica, o su un grande quaderno. Nel secondo atto, l’occhio e l’orecchio sono quelli di Lucas: ora guardiamo e ascoltiamo attraverso i suoi sensi; nel terzo atto, che è il momento del disvelamento della verità, il labirinto è esplicitato e ricordo, tempo presente, sogno, realtà si intrecciano, coesistono, lasciando forse intuire, tra le pieghe del gomitolo, una possibile verità. L’autrice, attraverso questa tecnica di soggettiva dello sguardo, compie un atto d’amore verso il lettore che noi vorremmo trasferire allo spettatore».

Attori in carne e ossa, attori in video i codici linguistici si sommano e si intrecciano nel suo teatro, la struttura del racconto viene decostruita, accade in molti vostri lavori, e non è un caso che le opere letterarie che lei e Lagani frequentate abbiano una forte componente metalinguistica e metanarrativa, in cui ciò che viene raccontato non nasconde di aver significati e piani di lettura molteplici. Non da ultimo a fornirne una riprova sembra essere l’utilizzo della tecnica dell’eterodirezione, dispositivo di scrittura live e di performance d’attore per cui l’interprete va in scena senza aver imparato a memoria né la parte né i gesti da eseguire. Quale valore assegna alla Trilogia della città di K. nella storia di Fanny & Alexander?
«Credo che la forza di questo progetto sia nel non avere avuto paura di lasciar parlare liberamente l’inconscio, per cui si è trattato per me di un lavoro molto intimo, estremamente personale, in cui ho potuto trovare riverberi interiori e allo stesso tempo corale, in cui ho potuto esprimere al meglio quello che sentivo nel profondo, in maniera istintiva, fluida, porosa, in dialogo con le mie compagne di viaggio. Ringrazio la cura, generosità, dedizione con cui i cinque meravigliosi attori che sono in scena si stanno facendo attraversare da questa storia incredibile, esplorandone i meandri ogni sera (per 23 recite!) e allo stesso tempo il numeroso cast che ha frequentato per quasi un mese il set delle riprese allestito al Piccolo Teatro. Nell’articolarsi di un labirinto come quello di Trilogia della città di K., l’utilizzo di una tecnica come l’eterodirezione è di fondamentale aiuto per governare quanto avviene sulla scena: se, oltre alla complessità dei gesti e dei movimenti, gli attori avessero anche dovuto imparare a memoria un testo simile, la preparazione dello spettacolo avrebbe richiesto almeno tre mesi di prova. Oltre a questo, il dispositivo sottolinea come tutto avvenga nell’hic et nunc, lasciandoci tutti, interpreti e pubblico, sempre connessi a un tempo presente in cui tutto è sincronizzato e allo stesso tempo connettendoci ai fili di un tempo passato, a un’entità remota che è l’essenza della materia viva e creativa della scrittrice. L’eterodirezione è il perno della regia e della drammaturgia, tutto si appoggia su questo strano processo che crea e mantiene un fluido energetico costante».

E alla fine ci si ritrova catapultati in un mondo altro, in una sorta di opera totale che non lascia via d’uscita e che sollecita il cuore e il cervello al tempo stesso. 
«Spero che il pubblico possa abbandonarsi a un vero viaggio delle emozioni e allo stesso tempo portarsi a casa delle domande.»

Ultima modifica il Domenica, 17 Dicembre 2023 09:34

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