Fra Natale e Capodanno: scorribande nelle capitali europee
di Grazia Pulvirenti
Nel mese di dicembre non solo s’accendono le strade di luminarie, a volte rasentando o superando ogni sopportabile Kitsch, ma anche si illuminano le insegne dei teatri e delle sale da concerto con luci a festa. E, nel periodo che precede la fine d’anno, le capitali europee offrono occasioni per delibare prelibatezze musicali e teatrali, puntando su una qualità straordinaria.
Inizio a riferire delle recenti scorribande partendo da una delle più alte vette di teatralità cui abbia mai assistito: il King Lear diretto e interpretato da Kenneth Branagh al Wyndham’s Theatre di Londra, con un cast straordinario: Deborah Alli, nota per i film Undercover (2016) e Gym (2022), nella parte di Goneril, MelanieJoyce Bermudez come Regan, Doug Colling come Edgar, Eleanor de Rohan, nota agli spettatori di Netflix per Anatomia di uno scandalo nei panni di Kent, Joseph Kloska, interprete in The Crown, come Gloucester, Caleb Obediah come Cornwall (volto conosciuto dalla serie Bridgerton) e Jessica Revell nel doppio ruolo di Cordelia e di un malinconico Fool. La scelta registica è quella della icasticità di un segno arcaico che trapela dalla scena con evocazioni di atmosfere da Stonehenge e con un’esplosione di galassie proiettate in una sorta di occhio cosmico, che circonda lo spazio umano, apparendo e scomparendo, come appaiono e scompaiono la verità, l’inganno, il senso dell’umano agire, l’amore, la follia. Il motivo della cecità del protagonista è trasferito sulla scena, mentre l’attore sceglie di interpretarla nella sua essenzialità, in una recitazione che scarnifica la parola, facendo vorticare lo spettatore nella mente del protagonista. Nudo ed essenziale, eppure ricco di colore e sfumature, Branagh fornisce una visione di re Lear ai limiti della brutalità, della demenza. Lo rende distante, irraggiungibile empaticamente: un uomo solo preda della sua cecità, che gioca la sua ultima partita con la vita. E perde, minuscolo granello di un immenso cosmo estraneo e nemico all’essere umano e ai suoi rovelli.
Cavalleria rusticana, allestimento di Damiano Michieletto
Come “Cav & Pag” è noto il dittico verista di Cavalleria rusticana e Pagliacci, in scena alla Royal Opera House in un acclamato allestimento di Damiano Michieletto, con le scene di forte impatto visivo, a un tempo realistiche e iperrealistiche, di Paolo Fantin, e i costumi di Carla Teti. La bellezza e l’efficacia drammaturgica della regia, se non bastasse, è dimostrata dalla longevità di questa produzione sulle scene londinesi. La regia collega le due opere rendendo la loro rappresentazione in un’unica serata un evento interpretativo e non occasionale: si tratta così di una sorta di dramma di paese, all’interno del quale Nedda e Silvio vivono l’esplosione della loro passione già in Cavalleria Rusticana, mentre Santuzza, appare in una delle scene più emozionanti dell’allestimento, ovvero in Pagliacci, ove si riconcilierà con Mamma Lucia. Il sipario si alza sul corpo esanime di Turridu, intorno a lui l'intero cast immobile, cosa che conferisce una straordinaria cupezza e drammaticità all’allestimento. Da un punto di vista vocale domina il cast Elena Zilio che ha reso drammaticamente autentica ed efficace Mamma Lucia. Altrettanto toccante Aleksandra Kurzak che, con i colori cupi del suo soprano drammatico, ha dato vita a una Santuzza vera e arcaica, l’esplosione di una femminilità primordiale. Accanto a lei, Roberto Alagna, che nella vita reale è suo sposo, ha dimostrato di dominare ancora con efficacia il suo strumento vocale. E soprattutto ha dispiegato una estrema maestria nel legato, come in “Oh Lola ch’ai di latti la cammisa”, e una possente verve nei duetti con Santuzza. Accattivanti il timbro e i colori del mezzosprano Rachael Wilson al suo debutto alla ROH. Alfio è stato interpretato da un efficace Dimitri Platanias, che dà voce anche a Tonio, chiudendo la prima parte dello spettacolo e aprendo il sipario di Pagliacci con il famoso prologo, accanto a cui è subentrata alla prevista Anna Princeva, Valentina Puskás, che ha dato un’ottima prova nel ruolo di Nedda. Discutibile la direzione di Daniel Oren, soprattutto in Cavalleria, interpretata con tempi lenti e senza quel fascino che modula melodie e dinamiche.
Spostandosi al Barbican Centre, dove si svolge la stagione della London Symphony Orchestra, non si può non constatare la raffinatezza delle scelte dei programmi. Come nel caso della serata con uno straordinario Concerto per orchestra di George Benjamin, allievo di Stockhausen e Boulez, nonché di Messiaen. Composta nel 2021 per la Mahler Chamber Orchestra, l’opera è dedicata all’amico compositore scomparso Oliver Knussem. Eppure non prevale la malinconia, ma il brillio della ricerca cromatica. Gli strumenti vengono evidenziati nella loro unicità, e ritrovano, nei momenti di comunione, un afflato, un respiro comune. Quello della vita. A tale brano sono seguiti Mathis der Maler di Paul Hindemith e il Concerto per piano n.3 in do maggiore opera 30 di Rachmaninov, eseguito in maniera incomparabile da Kirill Gerstein. Ha diretto Susanna Mälkki, insignita della nomination di migliore Musical American Conductor, un concentrato di energia e precisione in un corpo minuto e a tratti etereo. Sebbene il gesto possa inizialmente apparire legnoso e spigoloso, la sua conduzione scolpisce ogni suono, ne deliba contorni e sfumature, lo sublima in un regno di morbidità e dolcezza. La ricerca che conduce in ogni sua interpretazione (anche nel concerto con i Tre notturni di Debussy e la sinfonia The Poem of Ecstasy di Alexander Scriabin qualche giorno dopo) è di precisione, chiarezza, trasparenza, lucidità di ogni singola componente della partitura, cosa che le consente di fare emergere le strutture sottese in un luccichio che a tratti abbaglia. Sempre attenta alla dinamica ritmica e alla tensione intima di ciascun tema o motivo, indulge nei particolari con il piglio di un entomologo, li mette in luce, come ad accendere un faro su ciascuno di essi, per poi risolverli nella dinamica generale della tensione strutturale.
Non parleremo del celebre concerto di Capodanno, quest’anno diretto da Christian Thielemann, non particolarmente apprezzato per un certo rigore teutonico, che ha sembrato privare di soave letizia quel programma che dovrebbe condurci a passo di valzer nel nuovo anno. Più interessante la proposta del Concerto di Capodanno dell’Opera di Stato Ungherese, che ha visto una straordinaria orchestra e il preparatissimo coro offrirci una interpretazione drammatica e vibrante della Nona Sinfonia di Beethoven, le cui valenze ideologiche, politiche, utopiche sono state messe in luce in un discorso iniziale affidato a un celebre neurologo il Dott. Erőss Loránd, direttore dell’Istituto Nazionale di Psichiatria e Neurochirurgia Mentale. A lui è toccato il compito di introdurre la serata, contestualizzando la scelta esecutiva dell’opera all’interno di una volontà di testimonianza della responsabilità civile di ogni istituzione culturale e, per converso, della funzione altamente etica dell’arte, in particolare della musica, linguaggio meta-nazionale, attraverso il quale ribadire quei valori che le scelte guerrafondaie dei nostri giorni mettono a repentaglio. Diretta con straordinaria competenza analitica da Péter Halàsz, della Nona è stato possibile apprezzare sonorità mai prima udite, tanto per quel che riguarda la compattezza della orchestrazione, quanto per quel che concerne gli squarci luminosi dei piani e delle singole componenti orchestrali. Ma la tradizione asburgica, che sembra continuare a vivere su queste sponde del Danubio, seppur forzatamente tirata a lucido, non può fare a meno della famosa “Fledermaus” per aprire l’anno. Diretta da Istvan Dénes, l’operetta celebra la frenetica joie de vivre e la commovente bellezza della nostalgia di un tempo che fu. Con tutti i cliché del caso.