Denso programma al Festival di Radicondoli, direttore artistico Massimo Luconi
Per “Alfabeto Interiore” anche un ampio approfondimento su Luca Ronconi
“Gianni”, “La sposa blu”, “Acanto” e il Premio Radicondoli per il Teatro
Alle Scuderie
“Gianni”
di: Michelangelo Bellani e Caroline Baglioni
con: Caroline Baglioni
Progetto vincitore Premio Scenario per Ustica 2015
Spettacolo vincitore InBox 2016
Palazzo Lolini
“La sposa blu”
diretto e interpretato da Silvia Battaglio
Teatro dei Risorti
“Acanto”
testo e regia di Nicola Russo
con: Alessandro Mor e Gabriele Graham Gasco
scene e costumi: Giovanni De Francesco
suono: Andrea Cocco
video: Matteo Tora Cellini
assistente alla regia: Isabella Saliceti
produzione: Monstera
Palazzo Bizzarrini
Premio Radicondoli per il teatro
La quindicesima edizione consegna il premio al Maestro, per la sezione critica, e per il particolare uso di nuove tecnologie (in nome di Walter Ferrara). La giuria si avvale delle indicazioni degli operatori teatrali e del pubblico.
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Scrive della necessità del teatro il direttore artistico del Festival di Radicondoli Massimo Luconi per “Alfabeto interiore”, titolo della XXXVIIII edizione, 13/29 luglio, alla ricerca di una dimensione che dia importanza “alla parola e al gesto, al rapporto diretto, personale con la comunicazione”. E non c’è solo teatro: poesia, concerti, film, mostre fotografiche, importanti pubblicazioni, tutto in quel piccolo centro toscano in provincia di Siena ricco di sorprendenti palazzi, circondato da un paesaggio d’incanto. Nel grande, funzionale programma cartonato la presentazione dei numerosi eventi, tra gli artisti Luca Lazzareschi, Maria Cassi, Nada, Awa Ly, Fausto Russo Alesi, Lino Musella, Maddalena Crippa, Laura Angiulli, Arianna Scommegna…solo spiluccando qua e là. Tra i progetti speciali un ampio approfondimento su Luca Ronconi. E a settembre, dal 6 all’8, giornate speciali per “Campus drammaturgia” con letture, workshop, incontri tra autori, registi e interpreti.
E’ nello spazio ristretto delle Scuderie, interprete e spettatori molto vicini, che Caroline Baglioni ha affrontato “Gianni”, scritto insieme a Michelangelo Bellani, uno spettacolo arduo dove l’attrice è contemporaneamente se stessa e lo zio, il cui nome dà titolo all’opera, figura inquieta, inadeguato al mondo, carico del desiderio di stare bene mentre passava attraverso diversi stati di disagio psichico. La storia è davvero familiare - e può diventare teatro, non solo raccontando, ma agendo quasi coreograficamente sulla scena, indossando una scarpa da donna e una da uomo, un’immersione possibile, attraversata anche da affettuosa ironia, avendo potuto ascoltare e riascoltare dei nastri incisi da Gianni, dalla Baglioni scoperti anni dopo la morte, dove raccontava di sé, delle proprie difficoltà, del bisogno di non soffrire più. Come per il Krapp di Beckett?
Alcuni modi di essere, gesti, intonazioni vengono proprio da Gianni, come quel suo rivolgersi al cane Ringo, o di tenere la sigaretta. Usando sue parole. Con qualche “stop” a tratti, interrotta la registrazione. Caroline entra con un gran mucchio di scarpe che lascia cadere nella casualità, ma poi, nel parlare, nel rendere azione alcuni stati d’animo, le sistemerà in vario modo, perimetro di una stanza, strada da percorrere. Forse guidando ad alta velocità verso la morte…voglia di finire, ancora una volta beckettianamente.
Il malessere espresso con il corpo, con i capelli, scivolando a terra, incrociando lo sguardo di qualcuno del pubblico, lasciando scorrere questioni etiche, la dialettica tra bene e male, e infelicità nelle relazioni impossibili, specie con le donne, non riuscire a “scopare”. Citato comprensibilmente Charlie Brown. Le letture, il girovagare per la città di Perugia. La vita come un cerchio “ma spezzato”. La voce e il canto.
“Avevo circa tredici anni. Mio padre tornò a casa e disse che era arrivato il momento di occuparci di Gianni. Era un gigante Gianni. Alto quasi due metri. Era proprio grosso e nella mia mente è un film in bianco e nero”: così ricorda Caroline, riuscendo a trasformare questi ricordi in impasto drammaturgico, in passaggi di sapore coreografico. “Prima” era una delle parole preferite da Gianni, un tempo distante, quasi mitico, di quando non era ammalato. E’ stato nel 2004 che vengono trovate quelle cassette registrate “dove Gianni ha gridato i suoi desideri, cantato la sua gioia, espresso la sua tristezza”. Un contatto distante nel tempo e pure denso, forte, assorbito interiormente. Quindi la decisione di farne teatro - e di notevole valore. Scelte con cura anche le musiche, le canzoni, Led Zeppelin, Afterhours, David Bowie. La follia dialoga con l’artista, quel “cancro dell’anima” era monologo a se stesso ma si trasforma in passaggi scenici emotivamente intensi, in grado di comunicare, azione aperta. Gianni ascoltato. Compreso? Sì, filtrato da quella nipote che moltiplica le forme espressive per raggiungere essenze complesse della condizione umana. E infine era riuscito a morire Gianni. La quiete sospirata tra insopportabili angosce. Identificato all’istante il corpo, primo indizio le sue grandi scarpe, numero quarantasei. Nell’ultima parte dello spettacolo si ascolta la stessa voce di Gianni, così come l’aveva scoperta Caroline Baglioni, bravissima, applaudita a lungo.
La sposa blu diretto e interpretato da Silvia Battaglio
E’ inaspettatamente una voce femminile a dare a Silvia Battaglio, autrice e protagonista di “La sposa blu”, l’ambiguo ordine, chiaramente prova di fedeltà, di non usare quella chiave appena consegnata: se la fonte di questa creazione scenica è decisamente Barbablù (il blu del titolo, la stanza segreta) ci si aspetterebbe per quel divieto un tono mascolinamente buio, minaccioso, coerente con il barbuto, spaventevole personaggio di Perrault. Forse il tema della curiosità punita - la stessa del mito “Amore e Psiche” - va al di là della divisione di genere? La gelosia oltre ogni confine d’appartenenza sessuale? Difficile pensarlo se nel programma di sala si legge della possibilità di “scorgere tracce del nostro tempo”, assai chiaro il riferimento alle tante donne uccise da mariti, compagni, che spesso non accettano la separazione, la scelta d’autonomia della donna.
E’ stato nel fascinoso Palazzo Lolini, mai utilizzato prima dal Festival di Radicondoli, a ospitare, in una sala di particolare teatralità, “La sposa blu”, affiancata, l’unica interprete tra canto, danza e animazione, da tre marionette anni ’40 appartenenti a una collezione storica: nella scena finale la Battaglio, in abito candido, di pizzo, depone le tre marionette sul suo lungo strascico avanzando accompagnata da una musica nuovamente lieta, da festa da ballo. Forse con riferimento a una delle varianti di Barbablù, dai caratteri magici, con le precedenti spose morte, sospese nella stanza segreta, felicemente resuscitate?
“Le marionette sprigionano una fascinazione tutta particolare, la loro essenza si perde in remoti feticci ancestrali - scrive Alfonso Cipolla, tra i massimi esperti del teatro di figura - per diventare uno dei modi con cui l’uomo ha sentito l’esigenza di rappresentare un altro da sé, per trasfigurare paure e desideri nel mito…E’ in questa forza che il feticcio sembra risorgere per rendere credibile in scena ciò che altrimenti sarebbe improbabile”: nello spettacolo della Battaglio, che è parso eccessivamente dilatato, le marionette vengono utilizzate in modo suggestivo, emozionale, specie nel contatto diretto, tenute in braccio, altre forse troppo facilmente lasciate in posture casuali.
Passaggi ralenti, la chiave nascosta, danzare in quella sala che sembra perfetta per il ballo. La noia della solitudine pur nella ricchezza? In altre versioni lei, in assenza di lui, organizza grandi feste, tradisce non solo la fiducia, la promessa data, quanto, concretamente, il simbolo stesso del divieto, affrontando altre esperienze erotiche. Ma per più di un momento sembra che si voglia sperimentare anche la morte. Tempo d’ansia, d’inquietudine. Il sangue non si cancella dalla chiave: non c’è modo di fingere.
Bettelheim sottolinea che “Barbablù” non è una fiaba: unico segno “magico” proprio quel sangue che non si cancella, ma, soprattutto, “i personaggi non attraversano alcuna fase di sviluppo”, riprendendo quindi una frase dello stesso Perrault: “E’ facile capire che questa è una storia dei tempi andati: non esistono più mariti tanto terribili da chiedere l’impossibile; anche quando sono insoddisfatti o gelosi, i mariti si comportano senza durezza verso le loro mogli”. Affermazione che suona ora di un’ironia tragica.
Acanto, testo e regia di Nicola Russo
Si svolge in una sala d’aspetto d’ospedale, un centro analisi per persone contagiate da HIV, “Acanto”, confronto tra due generazioni distanti sul tema dell’omosessualità, dell’Aids, protagonisti, per la regia di Nicola Russo, gli attori Alessandro Mor e Gabriele Graham Gasco: si cerca di essere discreti, di non invadere il campo dell’altro, di non dire troppo, di creare un’aura intorno a sé sufficiente perché ci si possa sentire soli, ciascuno con le proprie ansie, ma poi alla fine si parla, si racconta. Affrontando le forme dell’eros, i modi degli incontri, tra pudori e sfrontatezze: in “Acanto” - scene e costumi di Giovanni De Francesco, suono a cura di Andrea Cocco, video di Matteo Tora Cellini, produzione Monstera - cresce l’atmosfera di solidale amicalità, più facile poter dire di sé, delle proprie esperienze. Alle spalle il numero che scorre per essere chiamati, sentire dell’esito degli ultimi esami, ma è anche spazio per le immagini, schermo che, in forma stravolta, evoca i luoghi citati, le prospettive mobili, i corpi come svuotati. In una scena essenziale: due sedie che si fronteggiano. La situazione crea, in ciascuno dei due personaggi, preoccupazioni, ansie, ma con i loro racconti, sinceri, spudorati, capita anche di ridere e sorridere. Al Festival di Radicondoli è stato il Teatro dei Risorti a ospitare “Acanto”
E anche se chi scrive qui è membro della giuria, si fa il resoconto, semplice, essenziale, della cerimonia di consegna del Premio Radicondoli per il teatro, indetto dal Festival e dal Comune di Radicondoli con Radicondoli Arte, patrocinio dell'Associazione Nazionale dei Critici di Teatro: come d’abitudine è stato Palazzo Bizzarrini a ospitare tale premiazione, giunta qui alla quindicesima edizione.
Ogni anno viene premiato un Maestro, una persona del mondo del teatro che abbia saputo offrire con generosità il proprio sapere alle nuove generazioni, e, a turno, un critico e un progetto significativo. Inoltre da qualche anno si consegna il Premio Walter Ferrara (operatore teatrale, esperto di cinema e di arti visuali, ex direttore del Teatro Mercadante di Napoli): il riconoscimento viene consegnato ad artisti che si siano particolarmente distinti nell’uso di tecniche visuali, di nuove tecnologie o di video a corredo delle proprie produzioni.
Sono gli artisti, gli operatori teatrali, ma anche spettatori appassionati, critici, in generale esperti del settore a inviare ogni anno le segnalazioni relative al Maestro - e quest’anno per chi sa analizzare con cura gli spettacoli seguendo con sensibilità la crescita artistica delle compagnie.
Numerose come tutti gli anni le segnalazioni prese in esame dalla giuria di cui fanno parte anche Sandro Avanzo, Rossella Battisti, Claudia Cannella, Enrico Marcotti ed Elena Lamberti (coordinatrice organizzativa del Premio): sono stati chiamati a ritirare i premi 2024 il Maestro Fausto Malcovati, docente di Lingua e Letteratura Russa all’Università di Milano, traduttore e critico teatrale, tra i massimi esperti di teatro e cultura russa; la critica Elena Scolari, che, tra le numerose attività, collabora con Hystrio e che dal 2013 fa parte della giuria e del coordinamento organizzativo di Rete Critica.
Numerose le partecipazioni creative dell’attore e regista Giacomo Lilliù (Premio Walter Ferrara). Solo per nominare le esperienze più recenti: impegnato con Il Teatropostaggio da un milione di dollari (vincitore Residenze Digitali 2023), performance via Telegram con la curatela drammaturgica di Pier Lorenzo Pisano, tematicamente incentrata sulla collisione di linguaggio memetico e forma teatrale. Il lavoro debutta nel 2024 a Kilowatt Festival (Sansepolcro) e viene selezionato da festival come RomaEuropa, Città Visibili (Rimini), Urbino Teatro Urbano.
Valeria Ottolenghi