di Michele Abbondanza e Antonella Bertoni
con Eleonora Chiocchini, Chiara Michelini, Tommaso Monza, Antonella Bertoni, Michele Abbondanza
musiche originali: Amistadi, Bazzanella, Bungaro, La Manna
Roma, Teatro Palladium, 6 marzo 2008
Sei sedie rosse spiccano nel nero fumoso del palco. C'è qualcosa di diavolesco nei Capricci di Michele Abbondanza e Antonella Bertoni. Una vena sulfurea che contraddice maliziosamente la dichiarata ricerca di una felicità espressiva fatta di niente. Sarà la suggestione paganiniana del titolo, di quel violino che tenta di farsi strada nella confusione linguistica di una colonna sonora esagerata, zeppa di slittamenti musicali e di invenzioni rumoristiche, schianti e interferenze, frammenti di frasi che restano a mezzo, elettronica e funky.
Una classicità disturbata, viene da dire. Come quegli inciampi, quelle cadute a ripetizione che sono quasi il biglietto da visita del lavoro. Dopo alcune stagioni dedicate a dar forme coreografiche alla tragedia (non nasce forse da lì, la tragedia?), i due lontani allievi di Carolyn Carlson a Venezia si sono concessi una pausa di leggerezza, di voglia di ballare, recuperando un po' di quella ironia che fu uno dei tratti dell'ensemble Sosta Palmizi, che a distanza di tempo resta il più ambizioso tentativo di dare struttura e visibilità alla nuova danza italiana. In realtà sono gli arpeggi di due chitarre ad accogliere i cinque interpreti sul palco romano del teatro Palladium. Vestiti uguali in maniera quasi rituale, anche i due musicisti, una maglietta e una gonna pieghettata al ginocchio, di un colore scuro, ma sotto più intimi indumenti coloratissimi che si rivelano nelle contorsioni e nei capovolgimenti di una danza che predilige i movimenti a terra, i contatti fisici dei corpi che si inarcano, si sovrappongono in costruzioni scultoree che si disfano in abbracci che sono prove di forza. Giacché la forza è componente essenziale della loro danza. In una ideale androginia che sembra ancor più evidente quando si liberano delle magliette. Nella nebbia spinta a folate sulla scena, attraversata da fasci di luce rossi e gialli che evocano l'atmosfera acida di una sala da ballo o un concerto rock, si succedono una serie di sequenze danzate prive di un filo unitario, su cui si innestano gli interventi vocali di Elisa Amistadi, bella scoperta della serata. Quel che i due artefici chiamano aforismi coreutici. Capricci appunto, come da titolo. Giocosi esperimenti fisici di trasmissione dell'energia elastica da un corpo all'altro. Dondolanti marce di paperette alla Konrad Lorenz. Passi a due a labbra incollate in un bacio che si trasmette da un danzatore all'altro. Buffi esercizi di smorfie. Ma anche la processione di un corpo messo in croce su un'asta, rossa come quelle sedie di lato su cui tornano a sedersi ogni volta.
Perché si può resistere a tutto tranne che ai capricci, si può ben parafrasare. Ma non si sfugge alla forza di gravità. Contro cui si scontra anche la voglia di leggerezza. Questo ci dicono quei rallentamenti dell'azione, quello spegnersi del gesto e delle percussioni nel silenzio di una immobilità contagiosa. Come un sottrarsi momentaneo al bisogno di essere su una scena che rimette in gioco l'emotività perduta.
Gianni Manzella