Coreografia e interpretazione: Soa Ratsifandrihana
Musica: Alban Murenzi e Sylvain Darrifourcq
Luci: Marie-Christine Soma
Costumi: Coco Petitpierre
Assistente Costumi: Anne Tesson
Regia luci: Suzanna Bauer
Regia suono: Guilhem Angot
Archivi e sguardo esterno: Valérianne Poidevin
Sguardo esterno: Thi-Mai Nguyen
Stagista: Mylène Monjour
Produzione e diffusione: AMA – Arts Management Agency – France Morin, Cécile Perrichon, Anna Six.
Coproduzione: Arts Management Agency, Atelier 210, Charleroi danse, MARS – Mons Arts de la Scène, La Place de la Danse – CDCN Toulouse Occitanie, workspacebrussels, T2G – Théâtre de Gennevilliers, Centre Dramatique National, la Soufflerie – scène conventionnée de Rezé
Con l’aiuto della Fédération Wallonie-Bruxelles – Service de la Danse.
Con il sostegno di CNDC – Angers, Pointculture, Iles asbl, GC De Kriekelaar, Fabbrica Europa – PARC Performing Arts Research Centre, Kaaitheater e il Centre national de la Danse.
Mattatoio di Roma 26 Ottobre 2022
È frequente sentir dire, da parte di coreografi e ballerini, che la vera danza non è quella visibile nei gesti o movimenti grandiosi di un corpo che si attorciglia, si snoda, gira, cade a terra e si rialza, ma, piuttosto, nelle transizioni da un movimento all’altro. Mentre il corpo si organizza per giungere ad un nuovo movimento, questo pensa intelligentemente. Dunque è in quelle fasi transitorie di “non-danza”, se così possiamo definirla, quando sembra ci sia nient’altro che un semplice passaggio da questo a quello, che vediamo la Danza manifestarsi. E per un danzatore, forse, non c’è nulla di più vulnerabile che mostrarsi nella sua “non-danza”. La capacità di curare, e dunque vivere con estrema profondità, una semplice mano che scende, un piede che ritocca terra, uno sguardo da sinistra a destra, non è da tutti. In questo, il lavoro del danzatore, richiede un confronto onesto e costante con se stessi e con le proprie fragilità. Soa Ratsifandrihana, danzatrice e coreografa francese di origini malgasce, non teme questo confronto. Mercoledì 26 Ottobre, al Mattatoio di Roma, un pubblico di circa 80 persone si è trovato ad affrontare lo sguardo deciso, serio, spesso rabbioso di Ratsifandrihana, mentre la solista, nel silenzio assoluto, curava ogni gesto lentamente, come un samurai in preparazione a una battaglia o un cerbiatto a quattr’occhi con il suo cacciatore. C’è qualcosa di primitivo, che non vuol dire rozzo né casuale. Al contrario, Ratsifandrihana è precisa, il suo corpo va da una posa tesa a un gesto di rilascio, mostrando la potenza emotiva di quella “non-danza”, che è, poi, la Danza con la D maiuscola. gr oo ve è il titolo dell’assolo, una parola radicata nella tradizione musicale nera e che rimanda ad un feeling, quella sensazione fisica che si genera quando vi è un cambio musicale all’interno di un ritmo propulsivo. Con gli spazi tra le lettere del titolo, allora, Ratsifandrihana allude proprio a quella pausa che c’è appena prima che cada un nuovo ritmo, quando per un attimo teniamo il fiato prima di iniziare a muoverci a ritmo di musica senza neanche accorgercene. Proprio così mi sono ritrovata a muovermi nella mia sedia da spettatrice, mentre dall’altra parte notavo tra altri spettatori un ragazzo annuire a tempo di musica. A questo punto Ratsifandrihana aveva già consegnato a un membro del pubblico la sua giacca nera dalle spalle imbottite, vantando ora una maglietta aderente, metà arancione metà con una fantasia africana. Adesso si scatena il corpo preso dal groove, con convulsioni scattanti che fanno agitare questa danzatrice elettrizzante. Mentre il bacino gira, il piede batte per terra, il torso si estende indietro, la testa non fa altro che reagire alla moltitudine di input ritmici presenti nel corpo pulsante. Per arrivare a questo punto, però, Ratsifandrihana ha costruito un sofisticato e lento processo coreografico che parte dal nulla, e si genera da quel quasi nulla che è l’indefinibile sostanza del groove, passando, così facendo, per una sua “non-danza” che ha sapore di forza e vulnerabilità.
Maria Elena Ricci