da Bertolt Brecht
progetto e regia: Lisa Ferlazzo Natoli
costumi: Gianluca Falaschi
scene: Fabiana Di Marco
con Fortunato Leccese, Giordano Di Palma, Christian Piscitelli, Fabio Monaco, Selene D'Alessandro
Roma, Teatro Vascello, dal 6 al 22 febbraio 2009
Come «polverizzare» Brecht Franco Cordelli
Si può definire Joyce «uno dei maggiori scrittori del modernismo»? È così che si assiste a un processo di riduzione degli scrittori difficili del primo Novecento. In realtà Joyce è un grande scrittore e basta, che travalica le correnti, le tendenze, la sua stessa lingua. La resistenza a Brecht è della stessa natura. In Brecht o il soldato morto di Guy Scarpetta il bersaglio era il credo del drammaturgo di Augusta, il suo marxismo, la sua militanza comunista. Tuttora si vuole che questa sia la ragione del rifiuto. Ma l' ideologia di Brecht non è che un paravento ed è una contro-ideologia la critica che si cela dietro uno spauracchio, il comunismo, che non fa più paura a nessuno. Brecht viene rifiutato in quanto autore di opere complesse, di ardua messa in scena. Ascesa e rovina della città di Mahagonny del 1930 ne è un esempio evidente. Leggetela e rileggetela. Quale profitto se ne trae? Come la precedente Opera da tre soldi, è un' allegoria il cui obiettivo è la riforma del teatro musicale, il suo (come Brecht lo definiva) carattere gastronomico. Per quanto vi si torni, di gastronomico c' è poco, si rimane a bocca asciutta. Più che ogni altra scrittura drammaturgica, quella di Brecht, e in specie quella delle sue opere in musica, è virtuale: essa attende di conseguire la propria pienezza nel momento in cui sarà incarnata. Il regista che decide di farlo si assume una ben precisa responsabilità. Con Mahagonny si cimenta una delle promesse del teatro di regia, Lisa Ferlazzo Natoli. Che la Ferlazzo Natoli sia una promessa lo si tocca con mano appena si entra in teatro. È pieno di giovani spettatori, di sicuro non è pieno per Brecht, né per gli attori, tutti poco o per nulla conosciuti. In una scena semivuota, in cui campeggiano oggetti sospesi in aria e, sullo sfondo, uno schermo mobile, si muovono 14 attori accompagnati da un pianista nell' angolo di sinistra. Si coglie subito un' aria di famiglia: difficile immaginare qualcosa di più brechtiano, secondo lo stile a noi familiare delle messe in scena di Brecht. Col tempo viene fuori la vera natura dello spettacolo. Mahagonny è una distopia. Vi si immagina la fondazione di una «città della gioia», ben diversa da quella di Lapierre. Essa nasce in fondo alla corsa all' oro che affluisce dal West e dall' Alaska. Nella città-rete (questo è Mahagonny, pura gastronomia, gastronomia fatta contenuto da forma che era) cadono i peggiori ceffi, uomini e donne comuni che alla moltitudine dei divieti reagiscono con un «tutto è permesso». Ma se la repressione genera anarchia, l' anarchia genera repressione: si può essere giustiziati per nulla, o meglio per l' unica vera causa di condanna a morte: la povertà, l' insufficienza di mezzi materiali con cui fronteggiare la giustizia. Ebbene, se in Brecht, in questa sua spietata, realistica morale, permane a dispetto delle buone intenzioni un pizzico di filisteismo - da una parte l' ammaestramento e dall' altra il divertimento, sempre all' opera siamo, sempre nella gastronomia - nello spettacolo della Ferlazzo Natoli di chiaro c' è poco. Invece che rendere perspicuo l' oggetto, ella lo complica. All' elemento schizofrenico di Brecht risponde accentuandolo fino alla polverizzazione. Mai scioglie la matassa poiché, più di Brecht, vuole tutto: ammaestrare, divertire e perfino commuovere. Figlia d' arte, la Ferlazzo Natoli possiede una capacità tecnica di prim' ordine ma sembra gravata da un' adesione sentimentale al testo che le impedisce di vederne con chiarezza i limiti; le impedisce, cioè, la critica.