regia e drammaturgia Francesco Alberici
aiuto regia Ermelinda Nasuto
scene Alessandro Ratti
luci Daniele Passetìri
con Francesco Alberici, Maria Ariis, Salvatore Aronica, Andrea Narsi, Daniele Turconi
pianoforte Carlo Solinas (20 febbraio), Ario Sgroi (21 febbraio – 3 marzo)
realizzazione scene e costumi Officina Scenotecnica Gli Scarti
produzione SCARTI Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione
in coproduzione con Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia, Ente Autonomo Teatro Stabile di Bolzano
con il sostegno di La Corte Ospitale
si ringraziano Alessandra Ventrella, Davide Sinigaglia e Ileana Frontini
testo creato nell’ambito dell’École des Maîtres 2020/21, diretta da Davide Carnevali finalista alla 56a edizione del Premio Riccione per il Teatro
Visto il 3 marzo 2024 al Piccolo Teatro Grassi di Milano
Si potrebbero elencare le caratteristiche salienti del nuovo spettacolo di Francesco Alberici come elementi ricorsivi di una certa drammaturgia contemporanea: intanto il livello dell’autofiction, dove in parte è vero in parte no quello che si racconta di sé; dove l’autore si fa attore e l’attore si fa persona biografica in un gioco a tre figure che mischia sapientemente le carte. Poi il ricorso alla drammaturgia del pubblico, la cui presenza non è più ammissibile solo in quanto parte puramente fruitiva dell’azione in corso ma viene in qualche modo attivata, utilizzando diversi procedimenti. E ancora, il livello che cerca di integrare dato biografico ed esigenza di farsi carico di problematiche socio-politiche attuali. Infine, lo scivolamento continuo da un piano narrativo a uno meta narrativo, da un piano rappresentativo a uno meta rappresentativo, come una modulazione da impiegare con una sensibilità quasi musicale. Infine, il riferimento ad alcuni esiti dell’arte contemporanea. Tutti questi elementi e altri ancora sono al lavoro nello spettacolo di Alberici, oltre a un certo gusto per il paradosso e l’ironia. Franco Acquaviva
Il nome della multinazionale di cui si cerca di raccontare la strategia paternalistica di stimolo/punizione cui viene sottoposto il fratello del protagonista non viene ovviamente detto. E’ un understatement che in un certo senso dice più di quanto non si potrebbe su questa identità se la si svelasse e basta. Anche perché così essa non sta solo per sé. Ma svela, velandola, una questione più ampia.
E’ buona cosa che non si cerchi né l’effetto di verosimiglianza (il personaggio del fratello è giocato su tre attori diversi, tra cui Alberici stesso, che si sdoppia ulteriormente), né si adotti un tono da denuncia sociale (il per certi versi consolatorio “teatro civile”) tale da far indignare i “tuoi amici di sinistra” come accusa (ironicamente e auto-ironicamente) una delle personificazioni del fratello in scena.
Tutto il procedimento drammaturgico messo in opera da Alberici può forse essere sintetizzato con una delle battute chiave dello spettacolo, quasi una dichiarazione di poetica, inserita nella seconda metà del lavoro. Quel “formale fallimento di tentativi scenici” (cito a memoria) con cui l’autore definisce il proprio teatro in risposta alle proteste del fratello che, a una settimana dal debutto, interviene nello spettacolo-delle-prove-dello-spettacolo decidendo di ritirare il suo consenso e di fatto impedendo il debutto.
E lo spettacolo si potrebbe benissimo inquadrare in questa definizione, ché il tema, nel suo potenziale dispiegarsi in denuncia, frena quasi subito; mentre l’investigazione si sposta sull’effetto che la situazione provoca sui personaggi: i fratelli, ma anche la madre, in un significativo corto circuito con la figura della manager persecutrice. I momenti migliori sono quelli dove il dialogo si serve non tanto e non solo di modi recitativi di tipo naturalistico, ma li aggira, facendo un uso ironico di alcuni cliché rappresentativi: l’intervista iniziale al fratello condotta nei modi di un talk show interiore; il confronto serrato tra madre e figlio giocato come un duetto a metà tra opera e numero da night club. Si ride, amaro, per qualità di ironia; si apprezza il limine sul quale si muove il lavoro: non inchiesta, non denuncia, ma “chi sono io/chi siamo noi” in tutto questo. Domande, insomma.