di Beatrice Monroy
libero adattamento dal romanzo Notte, giorno, notte (ed. Perrone, Roma 2023)
regia Cinzia Maccagnano
scene e costumi Valentina Console
con Simona Malato, Viviana Lombardo, Dario Muratore, Giuseppe Randazzo, Maria Chiara Pellitteri
musiche e progetto sonoro Federico Pipia
riprese e montaggio video Sandy Scimeca
assistente scene e costumi Felicetta Giordano
produzione Teatro Biondo Palermo
Sala Strehler Teatro Biondo di Palermo dal 16 al 27 ottobre 2024
Tratto dall’omonimo romanzo in Di giorno e di notte, pubblico e privato, reale e immaginario, detto e non detto sono le diadi sulle quali si struttura il testo di Beatrice Monroy che con la regia di Cinzia Maccagnano ha inaugurato la stagione delle Sala Strehler del Teatro Biondo di Palermo. In scena Simona Malato, Giuseppe Randazzo, Viviana Lombardo, Dario Muratore e Maria Chiara Pellitteri dentro una scatola scenica efficace di Valentina Console che firma anche i costumi. La narrazione è come un fiammifero che acceso nella notte estiva e afosa sulla terrazza palermitana di uno dei tanti palazzoni tirati su rapidamente nel dopoguerra per ospitare gli impiegati della neo costituita Regione Siciliana, si alimenta di sé stesso e la sua fiamma incendia il buio e il silenzio addensando tensione fino al disvelamento finale. Due abitazioni, due nuclei famigliari, due coppie, due storie che hanno un nodo che solo il ventre antico della città permetterà di riconoscere e tentare di sciogliere Infatti la coppia uno e la coppia due, le cui vite s’intersecano nello spazio di un terrazzo in comune, si rivelano senza volerlo nella notte che avvampa di segreti taciuti, di sangue versato, di parole non dette che Matilde in preda all’insonnia sente galleggiare nel silenzio e via via disfano la tessitura dei ricordi di alcuni momenti di vita passata in una città dove la vista di un cadavere o lo scoppio di un ordigno, una sparatoria, rientrano nel comune accadere così come lo sdegno e la paura rientrano nel loro fodero di omertà che protegge un possibile riscatto sociale attraverso l’impiego pubblico, quel “farsi i fatti propri” a tutela di un rispetto manifestato e dovuto sebbene non tutte le ragioni siano chiare. Con un gioco di veneziane tirate su e giù, forzate e spiragli d’ascolto e a vedere ciò che non si dovrebbe, la vita di queste due coppie inscatolate nei loro loculi abitativi s’interseca vocalmente sullo sfondo notturno. Peccato però che la notte non si sente, la tessitura sonora di Federico Pipia non riesce da sola a farcela cadere addosso, la regia non ce la fa sentire questa notte e si sente invece solo ciò che la spezza, le voci buttate fuori e non calibrate sufficientemente, non lavorate sui toni, finiscono per sembrare forzate soprattutto quelle della coppia interpretata da Dario Muratore e Viviana Lombardo che urlano tutto il tempo con voci stentore e corpi irrigiditi da movimenti senza ragion d’essere dai quali sfiata una recitazione a tratti forzata e finta, senza sfumature né verità. Simona Malato è invece a suo agio nel personaggio di Matilde nella voce e nella narrazione piena di sfumature psicologiche che le esce in registri più naturali che sono anche quelli di Giuseppe Randazzo sebbene il suo personaggio, cioè quello del marito risulti una sagoma debole. La sensazione qua e là è quella di una disarmonia di registri recitativi che alternano momenti di naturalismo ad altri più stilizzati come nell’uso delle donne velate della città antica o della cameriera che si nuove come una bambola meccanica. Forte e inatteso è invece il salto che facendo perno sulla coscienza curiosa di Matilde che non riesce a completare il puzzle dei suoi ricordi, spalanca Palermo come un ventre le cui immagini rovesciano la scena al cui centro un consesso di prefiche stilizzate snuda la verità agitando lemmi e gesti davanti agli occhi basiti di Matilde. Sotto, sopra, intorno è sempre la presenza invisibile ma palpabile della mafia sebbene la parola non venga mai pronunciata. Su questo bel passaggio che cambia il respiro dello spettacolo direi che l’efficacia della scelta registica di introdurre spezzoni filmati è indovinata anche se manca di una cura maggiore che la qualità delle immagini avrebbero potuto avere e che invece risultano amatoriali, un po’ grezze anche se probabilmente è un effetto televisivo voluto che nono è privo di senso. Questo spettacolo lascia comunque il segno e il testo è un tributo alla recente memoria della città e della Sicilia, di una partecipazione che l’autrice stessa ha attraversato dolorosamente a suo tempo pertanto è un richiamo forte e incisivo che porta il pubblico dentro questa ferita che lui stesso conosce, sa di che cosa si sta parlando, lo conosce nel corpo e nella sua coscienza. Mi incuriosisce immaginare come uno spettacolo di questo genere possa essere percepito in modo diverso, con diversa intensità da un siciliano, un palermitano in particolare e una persona del continente la cui pelle non ha mai tremato per il deflagrare di un’esplosione e il cui olfatto non conosce certi odori tanto quanto gli occhi non conoscono certi sguardi. Ciò che si percepisce vivo e pulsante è la ferita di una città che ancora pulsa sotto i punti di sutura che tengono insieme due mondi in bilico sulla necessità di scelta tra quello di andare avanti e spaccare qualcosa che ostacola oppure di continuare con quell'andatura a capo chino di cui dice a un certo punto il testo. E’ uno spettacolo contro la rassegnazione e contro la paura e in quanto tale è un richiamo forte e necessario a mantenere viva la memoria che si fa coscienza, ossatura di una città che voleva scommettere sul suo rinascimento. Valeria Patera