scritto e diretto da Claudio Tolcachir
traduzione Rosaria Ruffini
luci Claudio De Pace, costumi Giada Masi
con (in ordine alfabetico) Rosario Lisma, Stella Piccioni, Valentina Picello, Giorgia Senesi, Emanuele Turetta
produzione Piccolo Teatro di Milano - Teatro d'Europa, Carnezzeria srls, Timbre4
in collaborazione con Aldo Miguel Grompone
al Piccolo Teatro Studio – Spazio Melato, 5 ottobre 2021
Chi sono quegli uomini e quelle donne? Cosa hanno in comune? Cosa fanno in quell’ufficio che sembrano non voler lasciare? Moni si occupa di tutti, ha la mania dell’ordine, sposta le cose, è presenza costante, dà l’impressione da subito di esserne l’anima, o forse esserne prigioniera. Sandra cerca inutilmente di avere un figlio, di averlo da un marito che forse non esiste. Ettore entra in scena con una telefonata, riportata da Moni: «Come si fa a capire se tua madre è morta?». Fuori luogo, forse in un altro spazio sono Sofia e Manuel, due ragazzi, lei vuole da lui un figlio, vuole una vita di coppia normale, lui le dice che non può amarla. Ciò che racconta Edificio 3 Storia di un interno assurdo sono solitudini in cerca di contatto, sono anime in dialogo, ma che paradossalmente si svelano più per quello che non dicono che per quello che fanno. Claudio Tolcachir costruisce un testo raffinato nei dialoghi, in cui le storie dei cinque personaggi si compongono come in un puzzle, in cui le diverse solitudini si combinano e si svelano pian piano. Relazioni inventate o semplicemente desiderate, desideri non espressi o che si rivelano improvvisamente, messi con le spalle al muro dalla casualità: è il caso di Manuel che cerca Ettore, e piomba in ufficio per svelare la relazione che lo lega al cinquantenne, orfano di madre. E solo nella scena finale tutti sono riuniti in quell’Edificio 3, dove non arrivano più le carte: quegli impiegati sembrano abbandonati a loro stessi, in balia di qualcosa di immanente che forse è semplicemente il dolore di vivere o l’impossibilità di continuare a vivere, ultimi sopravvissuti di un’implosione della realtà. Ed è per questo forse che quell’ufficio è diventato un rifugio, soprattutto per Moni che vi dorme e dissemina nei cassetti le sue cose.
Edificio 3 prosegue per apposizioni di storie, per rivelazione di piccoli dettagli di esistenze solitarie che crollano sotto il segno di bugie pronunciate per non soccombere alla vita, come è accaduto a un collega che si è buttato giù e a cui si accenna con pudore. Tutto ciò è agito con grande precisione, con concretezza, grazie a una regia attenta e chirurgica e a un gruppo di attori che sanno non eccedere. Valentina Picello sa essere esilarante e dolente, sa essere comica e triste fino alle lacrime, un fuscello in balia di una solitudine troppo grande e forse innamorata del suo Ettorino, l’amore impossibile come la vita lasciata da cui si è ritirata fra scrivanie e scartoffie. Ettore (Rosario Lisma) è un putto oppresso dalla figura materna, che alla morte della madre cerca in un giubbotto colorato e nel tingersi i capelli quella gioventù ormai trascorsa e il bisogno di piacere al suo Manuel. Emanuele Turetta è Manuel, biondo platino, macerato e incapace di confessare a sé stesso e alla sua donna la sua omosessualità. Mentre la fidanzata di lui, Sofia è Stella Piccioni vera, intensa, disperata e controllata nella sua fame di amore. Sandra di Giorgia Senesi è donna matura, affamata di maternità, fragile ma apparentemente tutta di un pezzo, alle prese col cibo e con un marito che l’ha lasciata. Tutto questo sulla scena si compie con grande intensità e credibilità, si ride e ci si commuove, si soffre per quelle vite incompiute e abbandonate e ci si chiede che ci facciano in quell’Edificio, in un interno francamente assurdo. Forse Edificio 3 vale più per i presupposti che pone, per i suoi silenzi che per la chiusura in sé della vicenda. Le premesse, le attese che sollecita il testo hanno più potenza dello disvelamento delle singole storie. La regia e la drammaturgia di Claudio Tolcachir hanno un loro rigore e una loro matematica precisione che accompagnano lo spettatore, lo fanno entrare in quell’interno e alla fine lo lasciano lì, insieme a quei personaggi che al tremolare della luce sembrano in attesa di una apocalisse (forse) possibile, la loro.
Nicola Arrigoni