di Anton Cechov – Progetto Cechov – Prima tappa
regia di Leonardo Lidi
con Giordano Agrusta, Maurizio Cardillo, Ilaria Falini, Christian La Rosa, Angela Malfitano, Francesca Mazza,
Orietta Notari, Tino Rossi, Massimiliano Speziani, Giuliana Vigogna
scene e luci di Nicolas Bovey
costumi di Aurora Diamanti
suono di Franco Fasioli
produzione Teatro stabile dell’Umbria, Emilia Romagna Teatro, Teatro nazionale stabile di Torino
in collaborazione con Spoleto Festival dei Due Mondi
al teatro Ponchielli, Cremona, 22 marzo 2023
«Portate via Irina Nikolaevna. Kostantin Gravrilovic si è sparato» è la voce fuori campo del dottore che interrompe il continuum temporale indistinto e cadenzato dai numeri della tombola, mentre Kostia è in scena in piedi davanti al pubblico. Buio. Così chiude Il gabbiano di Cechov nella messinscena di Leonardo Lidi. Palcoscenico vuoto, attori sempre a vista, chiamati a dire, raccontare il testo, personaggi sì, ma soprattutto attori che mediano le parole di Cechov. Lidi si diverte a capovolgere lo spazio e così la scena vuota e la panchina su cui la grande attrice Irina Arkadina (Francesca Mazza), Trigorin (Massimiliano Speziani) siedono insieme a Sorin (Orietta Notari) e Dorn il dottore (Maurizio Cardillo) guarda alla platea, il lago che fa da sfondo allo spettacolo che Kostia (Christian La Rosa) e la sua amata Nina (Giuliana Vigogna) offrono alla madre/attrice. Nel proseguire dell’azione quel palco che ha come orizzonte il lago diventa la scena stessa col calare di due teli neri ai lati e del fondale altrettanto nero verso cui si muove con movimenti che dicono di una vecchiaia incalzante l’intera combriccola de Il gabbiano, come una compagnia d’attori che si presenta alla ribalta a fine spettacolo, qui dando le spalle allo spettatore.
Questo segno metateatrale, questo capovolgimento dello spazio e al tempo stesso suo azzeramento nel disvelamento della nudità del palcoscenico viene a sostituirsi – forse – al tempo della noia e del non fare, a un tempo immobile che qui ha nel dire le battute in maniera accelerata un suo scarto di senso, una sua implicita strizzatina d’occhi a una sorta di vaudeville in cui a giocare sono gli intrecci amorosi, le passioni non corrisposte, il disvelamento di amori destinati a rimanere incompiuti. La borghesia annoiata e fallita di Cechov vive di una sua frenesia di loquela che fa correre una sorta di scossa che potrebbe far pensare a un riscatto, ma che poi si traduce in un nuovo abbandonarsi alla rassegnazione, alla consapevolezza che il tempo è passato e con esso la vita. È la considerazione di Sorin, interpretato da una commovente Orietta Notari, è la considerazione di Masa (Ilaria Falini) che ama Kostia non corrisposta e che, per ripiego, sposerà il maestro Medvedenko (Giordano Agrusta). Trigorin, romanziere di successo per gli altri e non per sé stesso, ha in Maurizio Speziani un interprete a tratti un po’ buffonesco e volatile. Ogni personaggio deve fare i conti con il suo insuccesso, accade per il medico Dorn di Maurizio Cardillo che pure se l’è spassata, ma non coglie l’amore di Polina (Angela Malfitano), sposata col gretto amministratore della tenuta Samraev (Tino Rossi). Innamorato di Nina (Giuliana Vigogna) è Kostia, ma la sua Nina gli sarà sottratta da Trigorin. La stessa Irina Arkadina baciata dal successo è inquieta, in continuo movimento, concentrata su di sé e dimentica del figlio, disposta a tutto pur di mantenere fama e, soprattutto, bellezza e giovinezza.
Tutto questo ne Il gabbiano di Leonardo Lidi è chiarissimo, sciolto in tutti i suoi passaggi, raccontato con grande e ammirevole chiarezza, con l’esito di decostruire quello che accade, di analizzarlo, di fermarlo in immagini che bloccano i personaggi in una sorta di stop filmico che richiama certe fotografie di gruppi familiari dei primi del Novecento. In tutto questo gli attori si fanno «officianti della sacra arte» per dirla con Kostia, un Christian La Rosa che sa essere giovane Amleto di parole, parole, parole. Francesca Mazza è una Irina Arkadina più madre che attrice, donna che combatte col tempo. Leonardo Lidi – complici le scene e luci di Nicolas Bovey e il suono di Franco Visioli – va in cerca dei primipiani sonori dei personaggi, chiede agli attori un’intimità segreta che è disvelata dal microfono, quasi spiata dall’amplificazione. E sul finale quando l’americana si abbassa fino a schiacciare i personaggi è ancora lo spazio delimitato dai teli neri e da questo calare del graticcio metallico ha trasformare in costrizione spaziale la natura soffocante di un tempo che scorre inesorabile, ma nulla cambia. In tutto questo la regia di Lidi opera con profondo rispetto del testo, opera nel solco di una tradizione di metteur en scène che si pone al servizio del testo, lo scioglie, lo rende chiaro, lo legge e lo porge con correttezza al pubblico perché vi si ritrovi. Non è cosa da poco.
Nicola Arrigoni