IPHIGENIA IN TAURIDE | Ich bin stumm (Io sono muta)
da Johann Wolfgang Goethe e Christoph Willibald Gluck.
Testo e imagoturgia: Francesco Pititto
Installazione, regia, costumi: Maria Federica Maestri
Interprete: Monica Barone
Notazioni coreografiche: Davide Rocchi
Produzione: Lenz Fondazione 2019
Parma, Lenz Teatro, Habitat Pubblico, 8 aprile 2019.
ORESTEA #1 NIDI
da Eschilo
Testo e imagoturgia: Francesco Pititto
Installazione, costumi, regia: Maria Federica Maestri
Interpreti: Valentina Barbarini, Sandra Soncini, Carlotta Spaggiari
Musica: Lillevan
Produzione Lenz Fondazione 2018-2019.
Parma, Lenz Teatro, Habitat Pubblico, 8 aprile 2019
Il primo pezzo, in uno di quegli spazi nitidi cui Lenz ci ha abituati, in questo caso ancora più netti per linee e disposizione di elementi, quasi la spolpata sembianza candidamente ossea di uno spazio zen, ci mostra entrando, sullo sfondo di una grande proiezione di chiarità marine, una coppia di corna di cervo e due ruderi di colonne, la prima collocata in cima le seconde appese a due stativi che non nascondono la propria lucente gravezza; poi a sinistra sollevata ad altezza d'uomo una vaschetta di plexiglass trasparente con acqua sottoilluminata e infine sulla destra estrema un vecchio giradischi al cui cospetto, come davanti a un altare, è inchinata una figura avvolta in un grande mantello bianco. Alla musica di Gluck, dall'omonima "Iphigénie en Tauride", sarà dato diffondersi di lì a poco per azione della donna, che snuda un vecchio LP sottoponendolo alla raschiante carezza della puntina. Siamo così del tutto entrati nel ricovero di Ifigenìa, la sacerdotessa di Diana, e il suo abitare questo luogo sacro è l'azione principale cui assistiamo. La sacerdotessa delinea come il percorso spaziale della tragedia e goethiana (ed euripidea), spostandosi dapprima nel luogo dell'approdo e poi della fuga di Oreste e Pilade lì condotti da Febo: il mare e il porto di Tàuride – e quelli che vediamo nel video realmente filmati da Francesco Pititto sono proprio un porto di Crimea e le acque del mar Nero. Per poi evocare l'omicidio rituale che il padre Agamennone compì su di lei quando Diana, sottratta alla lama per prodigio Ifigenìa, a lei il corpo di una cerva sostituì, i cui palchi vediamo qui, nell'eco scenica di quel miracolo, involarsi sollevati dallo stativo che l'attrice aziona, verso il destino d'esilio che l'aspetta. Così i due ruderi del tempio emergono dal sogno che Ifigenìa sconvolge – nella tragedia euripidea il sogno di una colonna che "in cima aveva/ come una chioma bionda" e le parla con voce di fratello – e vengono a guadagnare il suolo e il suo abbraccio nel luogo drammaturgico del sogno e dell'incontro con Oreste. Questo disseminare l'azione di correlativi oggettivi di per sé parlanti culmina nel dialogo segreto della sacerdotessa con la dea, dove il corpo stesso della performer si dà nella sua sfaccettatura biografica, si svela e rivela nei segni che la vita le ha impresso, e si distilla in un canto del respiro, dove la necessità pratica di gestire, ogni giorno, nella vita, una cannula inserita nella gola per facilitare la propria respirazione, deflagra in una preghiera pre-vocale, tutta insediata nel vento polmonare che la cannula dirige sopra un microfono (Monica Barone, come riporta il comunicato "fin dalla prima infanzia ha dovuto sottoporsi a numerosi interventi chirurgici al volto"). E siamo ancora una volta alla cifra artistica preminente di Lenz; questo suo eleggere e modulare l'eccezionalità naturale di attori "sensibili", persone con varie disabilità. Perché se l'energia dell'attore, e dell'attore-sciamano, ha a che fare con stati psicofisici non quotidiani, qui abbiamo l'epifania di corpi che quell'energia incarnano spontaneamente e sono per questo in grado di scuotere teatralmente lo spettatore con la forza pura della sola presenza, naturalmente disciplinata e modellata in scena dalla relazione con la regista Maria Federica Maestri.
Completamente diverso è il secondo pezzo, prima parte di un trittico sull'Orestea, che ci accoglie nella cupa predominanza materica del cemento che ricopre interamente le pareti della scena: una stanza trapezoidale delineata da alte quinte armate, un antro di maestosa e sinistra solitudine. Lo spazio nudo, quasi un negativo del primo, è tutto compattato nella pesanteur del cemento quanto l'altro era quasi sospeso nella grace di una luce eterea e metallica: solo due porte interrompono la continuità delle mura, e il varco che il fondale apre dalla metà circa del pezzo in poi sul nido-trono di queste Clitennestra-Agamennone-Cassandra che assommano in sé il triplice impulso omicida. Tutt'e tre le attrici che vi prendono parte sono figure iconiche e storiche di Lenz (Sandra Soncini, Valentina Barbarini, Carlotta Spaggiari), e vediamo ancora una volta delinearsi un modo di abitare la scena che sembra far evaporare gli accidenti della personalità per portare a emersione tratti di figure archetipiche. Sostenuti dall'ossessivo splendido bordone sonoro delle composizioni di Lillevan, tre momenti, tra gli altri, colpiscono, sconvolgenti squarci nel velo onirico e perturbante che sempre le opere di Lenz riescono ad avvolgere attorno allo spettatore: l'apparizione di un enorme fallo tra le gambe della Soncini che prelude a uno stupro tutto trattenuto nella contenutezza quasi sacerdotale dell'affondo nelle volute di un cappotto-corpo; il doppio urlo di un parto che è famelico, bestiale strappo dalla vita, con la predetta e Spaggiari sedute entrambe sul trono a gambe divaricate, l'una che partorisce l'altra, quasi sorelle siamesi ischiopage; la quasi autolesionistica e lunga danza del cigno (la morte di Cassandra) che s'innesta sul frammento musicale di Tchaikovsky, nella quale la Soncini si rivolta e sbatte sul pavimento in un'agonia angolosa, angosciosa, sussultante. La violenza si intride nelle posture di una "iconologia dell'oppressione" quasi antologizzata: e ancora, una Cassandra-cane a quattro zampe sul pavimento bagnato di un'acqua che siamo autorizzati a immaginarci orina; lo sfregamento del volto sui segni neri tracciati sul pavimento che macchiano, presagio di clown nero, il volto di biacca della Soncini. Tutto è potente traduzione di un sentimento del tragico dove la violenza riproduce se stessa, di assassinio in assasinio, in una fuga di specchi all'infinito, che ci ingloba senza remissione.
Franco Acquaviva