4 Azioni sentimentali di Lenz
Iconostasi Performativa
Ideazione, creazione, installazione Maria Federica Maestri
Performer in co-creazione Monica Barone, Valentina Barbarini, Tiziana Cappella, Carlotta Spaggiari
Rifrazioni visive Francesco Pititto
Cura allestitiva Giulia Mangini, Alice Scartapacchio
Cura progettuale e organizzativa Elena Sorbi, Ilaria Stocchi
Comunicazione, ufficio stampa Elisa Barbieri
Diffusione, cura grafica, formazione Alessandro Conti. Assistenti Mattia Goldin, Anna Zucca
Documentazione fotografica Elisa Morabito. Produzione Lenz Fondazione
Progetto realizzato in collaborazione con: Assessorato alla Cultura del Comune di Parma e Solares Fondazione delle Arti
Riferimenti iconografici: Azione 1 “Martirio di Sant'Apollonia” di Jean Fouquet, Azione 2 “Decapitazione di Santa Dinfna” di Godfries Maes, Azione 3 “Martirio di Sant'Agata” di Sebastiano del Piombo, Azione 4 “Santa Maria Egiziaca” Anonimo
Visto nella sala “Gina Pane” della mostra “Contemporanea” nel Palazzo del Governatore a Parma il 4 luglio 2024
Non si può che partire dal corpo e questo non vale solo per il teatro performativo contemporaneo ma anche per l'intero teatro e per l'intera sua storia, fatta di presenza, voce, movimento, del qui e ora circolare, come il cerchio magico del coro e della sua dionisiaca danza, della contingenza del tempo che richiama niccianamente e dunque religiosamente l'eterno, il quale eterno ricade ai nostri occhi in icone e reliquie misteriche, ovvero nella figuratività sacra che quegli stessi occhi ha strutturato e nutrito per secoli. Over Gina Pane, di Maria Federica Maestri e arricchito dalle rifrazioni visive di Francesco Pititto, mette ancora una volta insieme queste suggestioni riaprendo metaforicamente le 'azioni' di Gina Pane, artista visiva italo-francese che abbiamo perso troppo presto nel 1990, diventata performer del proprio stesso corpo in ormai mitiche presenze che le foto da lei stessa scattate durante lo spettacolo Azione sentimentale del 1973 richiamano. Ed è proprio la sala che accoglie queste foto, nell'ambito della bella mostra “Contemporanea” curata da Simona Tosini Pizzetti al Palazzo del Governatore nel centro di Parma e rintracciabili nel catalogo della mostra stessa, il luogo ove accade l'evento teatrale. Ovviamente la radice di questa rinnovata consapevolezza della profonda fisicità del teatro, che proprio per questo è altrettanto profondamente spirituale, non possono che essere i gesti impossibili di Antonin Artaud. Ma se quello sfortunato genio, partendo dal corpo in scena denudato da ogni parola, quel corpo stesso si proponeva di dissolvere per il tramite della 'crudeltà', così da mostrare il corpo autentico e indeterminato in esso prigioniero, Gina Pane, e con lei Maria Federica Maestri e la tradizione, non solo in ambito performativo, di denunzia femminile-femminista di fine 900, riscopriva la ferita inferta al corpo in scena essa stessa come varco, come tramite per mostrare e quindi denunciare, dissacrandola, la prigione-patriarcato che estrofletteva in fondo il corpo femminile in terra di conquista e sopraffazione. Pertanto, come scrive Lenz nel foglio di sala, protagonisti sono “corpi in ferita, corpi del disastro, corpi del ritorno, corpi sopravvissuti al nulla del dolore”, e con essi la ferita non solo come denuncia del dolore che caratterizza la femminilità perseguitata, vandalizzata e sopraffatta, ma anche come sfida beffarda, come rivendicazione orgogliosa, come apertura ironica e iconica che chiama alla ribellione, soprattutto mostrando la propria irriducibile 'inafferrabilità'. Il dolore che diventa bellezza, i limiti e i confini del corpo che si fanno tramite e passaggio di 'vera' liberazione in una estetica della crudeltà che ne recupera gli elementi di sincerità, sono credo i fondamenti di questa drammaturgia in 4 tappe, che per soli due giorni possiamo vedere in contemporanea successione, elementi che spesso, e la poetica di Lenz ne è sempre stata consapevole 'agente', la figuratività iconografica, richiamata nello stesso ambiente che ospita questo nuovo loro 'site specific', ha inconsciamente esaltato nei suoi nascosti 'particolari'. Una tendenza, per breve inciso, che abbiamo potuto leggere in molti spettacoli di questi ultimi anni e recentemente anche in Femina, la bella coreografia di Antonella Bertoni, recensita in questo stessa rivista, che della 'Fessura', riletta anche in senso cristologico come ferita del costato, suggerisce il valore di passaggio, di confine superato e dunque il potere di liberazione dalle incrostazioni stereotipate del 'moto' femminile. E di questo movimento si sono impadronite molte artiste, e forse non poteva essere altrimenti, in un sguardo finalmente autonomo che si fa occasione (l'ultima?) per far capire all'altra metà del cielo (e qui ovviamente si intendono i maschi) che la liberazione invocata, offerta e così conquistata è per entrambi e anche per tutti gli altri. Dunque uno spettacolo in fondo tutto femminile, dalla sua creatrice Maria Federica Maestri alle quattro attrici sensibili (Monica Barone, Valentina Barbarini, Carlotta Spaggiari e Tiziana Cappella) che si fanno performer, ciascuna per ogni movimento, tra musica e visione che trasfigurano in pensiero senza parole, e ciascuna con la sua specificità che è sempre stimma di una condizione universale che tutte e tutti riguarda. E dunque ancora uno spettacolo 'site specific' in quattro movimenti, ove le corrispondenze figurative, in uno scenario di platonico erotismo che sconfina dal mistico al metafisico, producono inaspettate ed estetiche corrispondenze drammaturgiche che a loro volta ne producono altre profondamente psicologiche, singolari e esistenzialisticamente illuminanti. Tra l'altro proprio il contesto particolare ha imposto limiti operativi che sono stati trasformati, dal lavoro di progressiva sottrazione curato da Francesco Pititto, in opportunità, dalla dimensione luci, povera e poco invasiva, a quella sonora magicamente limitata alle rare vocalità delle attrici e ai rumori dei pochi oggetti chiamati ad occupare la scena. Uno scenario comune per tutti e 4 i movimenti con il pubblico (ovviamente a numero chiuso) praticamente su due lati a fronteggiare un grande specchio che ne accoglie e raddoppia la presenza, a ricordare in questo la miniatura a base del primo movimento, segnata al centro dalla bianca figura di Sant'Apollonia martirizzata e circondata dai numerosi astanti. Ognuna della 4 attrici performer porta sul proprio corpo o nella propria storia lo stimma di un dolore, di una ferita che rispecchiando in qualche modo l'iconografia della sacra immagine ogni volta prescelta, quasi a ripresentare riaprendolo il dialogo-discorso fisico di Gina Pane, ne illumina il senso singolare mostrandosi paradossalmente come l'indicatore universale di una via verso il riscatto, la libertà e infine la 'bellezza'. Così Monica Barone, la protagonista del primo movimento, riflette e rilegge attraverso il proprio corpo scolpito e deformato dalla vita, il martirio indotto esemplarmente su Sant'Apollonia, ripercorrendone interiormente (e la valenza di questa affermazione è concretamente fisica non solo metaforica) il cammino, un cammino che ne illumina lo sguardo sempre più profondo e intelligente che in fondo ripristina e riconquista non tanto la presupposta 'normalità' quanto piuttosto la pari eguaglianza (nell'essere anch'esso 'cenere' come significativamente scrive sullo specchio) e dignità nel mondo stesso. Il piccolo cubo di vetro che l'affianca accoglie così la tenaglia simbolo del martirio ed un bicchiere di latte simbolo della purezza mai perduta e ora rivendicata. Santa Dinfna e Carlotta Spaggiari sono le protagoniste del secondo movimento che ha in oggetto il dolore e la ferita interiore, della mente o dello spirito, entrambi esito di una prigionia e di una ossessione di possesso del maschile (fino a giungere all'estremo dell'incesto paterno) che opprime il femminile mentre cerca una fuga spesso sfortunata. È questo il movimento in cui il corpo produce più che in altri momenti la parola, una parola reiterata, materica e anaforica, che nell'incipit “mio padre”, ossessivamente richiamato nell'incoercibile movimento del corpo in scena, ci dice di lei e della Santa. Più esplicito qui anche il richiamo al percorso di Gina Pane, che quasi sovraintende dalle fotografie in mostra in quella stessa sala l'intero evento drammaturgico, ed infatti la Spaggiari ripropone metaforicamente con i mattoncini Lego rovesciati in scena, le ferite da lei auto-infertesi con le spine di una rosa (eterno simbolo del femminino e sfondo della sua 'via dolorosa') sulle braccia aperte ad un abbraccio sperato. Dunque sul piccolo cubo di vetro viene posata la spada simbolo del finale martiro della Santa, raggiunta e decapitata dal padre. Terzo movimento o dell'Estasi, tra Sant'Agata e Valentina Barbarini che rispecchia nel proprio corpo e nella malattia che lo prende, il corpo della Santa e la malattia in esso indotta dal martirio che frantuma le ossa e lacera la carne laddove più la femminilità si incarna e riproduce. Ma è un dolore che produce l'estasi, e l'estasi produce quel distacco dal dolore che sta al confine con la Grazia della bellezza e anche della verità. La Barbarini sa e ci comunica tutto questo nei suoi movimenti scenici, nelle carezze che riproducono le lacerazioni e le sanano, ma soprattutto nella sua mimica che proietta la luce del suo sguardo verso le terre inesplorate della salvezza. In una mescolanza di simbologie religiose e laiche, il piccolo cubo accoglie qui un ostiario dorato e a fianco ad esso il telo bianco e santo che avvolge l'attrice, il suo bendaggio. Il quarto e ultimo movimento, a differenza delle altre tre azioni sentimentali, è in sostanza la riapertura della performance di Gina Pane del 1976 “Action Il Caso n. 2 sul ring”, riletta e riagita anch'essa 'sentimentalmente'. È la devianza l'ultima indagine di questo complesso spettacolo, la devianza come imposizione della società, ma anche specularmente come scelta attivamente subita (e non è un paradosso anche se lo appare) per sottrarsi a quella stessa società che non accoglie. La malattia mentale ne è in fondo il nome più ri-conosciuto. Protagonista doppia Maria Egiziaca, prostituta diventata santa dopo quarantasette anni vissuti nuda a vagare nel deserto (potentissima la simbologia ivi custodita), e Tiziana Cappella che presumibilmente un simile percorso nel deserto della mente ha anch'essa compiuto. La riproposizione iconografica (la lunga parrucca e il rasoio sul cubo di vetro) diventa movimento metaforico vissuto sulla scena, a partire dalla spogliazione e dalla rasatura dei capelli, per liberarsi del peso di una diversità che è stata fatta prigione. È brava, Tiziana Cappella, a riproporci e recitarci l'azione senza sovrapporsi alla storia ma man mano svelandola e illuminandola. Per chiudere, uno spettacolo figurativo ma insieme paradossalmente 'iconoclasta' (per quanto sa dissezionare la figuratività) e profondo, articolato figurativamente e drammaturgicamente, capace di distillare bellezza dal dolore ed in cui il rapporto con l'ispiratrice Gina Pane non è celebrativo ma esteticamente produttivo di nuove e necessarie verità artistiche. Maria Dolores Pesce