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MANGIAFOCO - regia Roberto Latini

"Mangiafoco", regia Roberto Latini. Foto Masiar Pasquali "Mangiafoco", regia Roberto Latini. Foto Masiar Pasquali

drammaturgia e regia Roberto Latini,
luci di Max Mugnai, musiche e suono di Gianluca Misiti,
elementi scenici di Marco Rossi, costumi di Gianluca Sbicca
con Elena Bucci, Roberto Latini, Marco Manchisi, Savino Paparella,
Stella Piccioni, Marco Sgrosso, Marco Vergani  
coproduzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Compagnia Lombardi-Tiezzi,
Fondazione Matera Basilicata 2019, Associazione Basilicata 1799/Città delle 100 scale Festival,
in collaborazione con Consorzio Teatri Uniti di Basilicata,
al Piccolo Teatro Spazio Melato, 29 novembre 2019

www.Sipario.it, 13 dicembre 2019

Roberto Latini è quanto di più vicino a una rockstar ci possa essere in teatro. Lo è dai tempi del suo Jago, lo è nel suo Lucignolo Noosfera, ma in fondo anche nel suo Teatro Comico di Goldoni, ridotto, frammentato, compreso e frainteso secondo il proprio personale, individuale, egotico, solipsistico sentire. Roberto Latini è una rockstar e non solo perché col microfono si atteggia come un divo del pop, lo è perché che lo si voglia o meno la sua presenza catalizza l’attenzione, tutto ruota attorno a lui, ogni narrazione è destinata a implodere, concentrarsi su di lui e non solo per un vezzo d’attore, ma per un’urgenza d’autore. Con Mangiafoco Latini fa suoi i tre capitoli di Pinocchio laddove il burattino si presenta nel teatro di Mangiafuoco. È nella sospensione della commedia, nell’abbraccio di Arlecchino e degli altri burattini al loro consimile, è nella protesta del pubblico perché la commedia riparta, è in questa sospensione di tempo che Roberto Latini ubica e svolge il suo pensiero sul teatro, sugli attori, sulla finzione che si compie nell’autonarrarsi, sul sistema teatrale da cui dichiara di essere uscito, rinunciando ai fondi ministeriali. Per Latini poetica e politica coincidono e si concentrano nel suo essere dentro e fuori la macchina del teatro: dice no ai fondi del ministero e lo fa nel teatro istituzione per eccellenza. Contraddittorio? No. È l’acuto del virtuoso, è la sfida della rockstar, è l’urgenza di un dire e fare che rispondano al sé e al noi della convocazione teatrale e non ad altro. 
Uno scivolo fa da ingresso ai vari personaggi/attori, tutti di bianco vestiti, compaiono da dietro un sipario, bianco anch’esso, sul modello di un varietà, di una rivista candida e un po’ pop. Lo spettatore in cui ci si rispecchia sono gli stessi attori con indosso una grande testa di Topolino, creatura disneyana, lascito pop di una commedia per bambini, simbolo iconico di una omologazione del vedere. Così nel presentarsi dei burattini a Pinocchio e di Pinocchio ai suoi consimili Latini individua il pretesto di far uscire ad uno ad uno i suoi attori per dire della passione del teatro, della vocazione che brucia. Marco Manchisi omaggia il suo Totò, il fuoco che lo ha sciolto all’arte, Marco Sgrosso ed Elena Bucci dicono di una vocazione precoce e di un incontro determinante, quello con Leo De Berardinis. Come in una partitura jazz, Roberto Latini ha chiesto ai suoi attori una variazione sul tema dell’io e dell’arte, lo ha chiesto a Marco Vergani, Savino Paparella in carrozzina con un’aria beckettiana, e a Stella Piccioni, in un gioco al varietà che a tratti però è parso acerbo e poco incisivo. Roberto Latini lascia per sé il finale, il racconto del suo esordio alla scuola di Perla Peragallo: «volevo solo dà n’occhiata» disse Roberto Latini a 19 anni, sentendosi rispondere «Non c’è niente da guardare». 
Ciò che propone Mangiafoco è una possibile ma anche improbabile continuazione di quel viaggio del Teatro Comico e non solo perché la compagnia è la stessa. Latini mette in scena lo sguardo: la presenza evocata di Leo de Berardinis, il ghiaccio di una passione che si scioglie e che sembra un riferimento all’Hamletas di Eimuntas Nekrosius, in quel bianco che rende omogeneo c’è il bianco del Giardino dei ciliegi strehleriano… ma in tutto questo guardare rimane icastica la battuta di Peragallo: «Non c’è niente da guardare». E forse in teatro, in Mangiafoco non c’è niente da guardare se non le storie piccole, poco significanti di un gruppo di guitti che insegue una passione, un gioco destinato a sciogliersi come i blocchi di ghiaccio con il naso rosso, in un far finta che… in un giocare a come se… che restituisce solo la finitezza degli uomini e donne in scena.

Nicola Arrigoni

Ultima modifica il Sabato, 21 Dicembre 2019 22:56

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