di Mattia Sebastian Giorgetti
Con: Benedetta Laura’, Elisa Bruschi, Anna Germani
Pula, teatro romano, 27 luglio 2024
Medea è la caverna, l’abisso nel quale da 25 secoli gli uomini scavano senza mai trovare il fondo. Vi si trovano i mali belli e pronti, ma anche i semi di quelli che matureranno nella storia. Indescrivibili, imprevedibili, atroci oltre l’immaginabile, tanto insondabile è l’animo umano. Da Euripide fino a Pasolini si perde il conto dei poeti, scrittori, musicisti e artisti a vario titolo che si sono misurati con quel grumo di enigmi e di passioni che è Medea. In questi Frammenti di Giorgetti troviamo il sentimento che accomuna tutti gli interpreti di Medea: la stupefazione. Una stupefazione sempre nuova, immutata nei secoli. Una stupefazione che spinge a cercare nelle pieghe più riposte dell’animo di Medea e a tentare di indovinare ragioni, moventi, dinamiche dei suoi delitti e della sua follia. Quanto alle ragioni siamo nell’imperscrutabile. Nessuna spiegherebbe tanto disumana crudeltà. Quanto ai moventi, bisognerebbe indagare le rotture nella psiche umana e nel suo rapporto con il mondo, e qui’ possiamo soltanto approssimarci ad un grado accettabile di “verita’” con qualche potesi e molta immaginazione. L’ipotesi di Giorgetti è che con Medea inizi l’età del ferro, quella che spinge gli uomini alla avidità senza limiti, al divorzio con la terra (la terra isolata, direbbe Emanuele Severino) alla violenza organizzata, al desiderio sfrenato di possesso, e infine al razzismo, alla xenofobia (Medea straniera) e alla guerra. Lettura avvincente, che vede quella rottura in termini non storici, ovviamente, ma antropologici. O, persino, psicanalitici. Vediamo. I Frammenti si dividono in tre parti, come fossero 3 mini-atti racchiusi in una unica piece. Nella prima parte Benedetta Laurà (bravissima) racconta l’antefatto. Lo fa con la voce straniata, di cronista non partecipe, ma interessata soltanto alla evidenza dei fatti. Racconta la nota vicenda mettendo l’accento sulla protervia di Giasone che sfida il “mare infinito” per andare alla conquista del vello d’oro. Pura avidità di ricchezze e di potere. E atto di ubris che che ha provocato la sua sventura. Che fa il pari con la ubris di Medea, che lascia la casa e uccide il fratello per seguire un miraggio (l’amore di Giasone: il suo movente e’ l’amore, non l’avidità) che presto svanirà. Appare, nel secondo mini- atto l’angelo della storia, Elisa Bruschi, che rappresenta gli orrori, le guerre, gli ‘sbarchi senza gioia’, l’“usura pianificata”, le aberrazioni piu’sconce. Poi compare Anna Germani, Berlino anni trenta, rags e parrucca bionda, canta “Das freulein Gerda”... poi imbraccia il mitra e spara dal microfono, come proiettili, brevi e secchi ordini in tedesco nello stile di Hitler, mentre si odono sventagliare pale di elicotteri, rombi di aereoplani... E’ la guerra moderna, puro progetto tecnologico, non più battaglia tra uomini, ma profanazione di uomini e natura per ‘mano tecnica’ al servizio di un folle progetto di sterminio. Tecnica per tecnica, confesso che avrei visto bene uno scavo nella vicenda della veste magica (e tossica) che Medea regala alla nuova sposa di Giasone, uccidendola. La magia era la tecnica di quei tempi. E la nostra tecnica può avere (ed ha) effetti ben pu’nefasti della magia di Medea. Chiusa l’immodesta parentesi, nella terza parte la piece prende il volo. Con lo splendido monologo della Laurà in cui Medea si confessa a se’stessa. Ed esplode in tutta la potenza della sua disperazione, del suo amore di madre, del suo odio per Giasone, per se’ stessa, della sua lucida e assurda follia. Urla, geme, si dibatte, impreca, e mentre uccide i suoi figli emette i gemiti delle doglie del parto. Straordinaria. Grande teatro. La Medea di Giorgetti debuttò in Giappone nel 2014, e fu un trionfo. A Pula ha chiuso la rassegna di quest’anno tra gli applausi del pubblico. Un’opera che regge la scena per dieci anni (e più) merita il nostro apprezzamento. E l’augurio che altri la rivedano, e l’applaudano, tra dieci anni. Attilio Moro