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MACBETH - regia Gabriele Lavia

Macbeth Macbeth Regia Gabriele Lavia

di William Shakespeare
traduzione: Alessandro Serpieri
regia: Gabriele Lavia
con Gabriele Lavia, Giovanna Di Rauso, Maurizio Lombardi, Biagio Forestieri, Patrizio Cigliano, Mario Pietramala, Alessandro Parise, Michele Demaria, Daniel Dwerryhouse, Fabrizio Vona, Andrea Macaluso, Mauro Celaia, Giorgia Sinicorni, Chiara Degani, Giulia Galiani
scene: Alessandro Camera, costumi: Andrea Viotti, musiche: Giordano Còrapi, luci: Pietro Sperduti
Roma, Teatro Argentina, dal 15 al 29 aprile 2009

www.Sipario.it, 19 gennaio 2010
Corriere della Sera, 26 aprile 2009
Il Messaggero, 18 aprile 2009

L'avvio del Macbeth di Gabriele Lavia è spettacolare: una sequenza di sapore cinematografico, con militari in belle divise ispirate – si direbbe – a quelle sovietiche, ricche di spalline e bottoni dorati... fumo, lampi di mitra, poi la vittoria contro il ribelle Cawdor, pone Macbeth in posizione tale da ricevere dal Re di Scozia Duncan l'attribuzione del titolo nobiliare dello sconfitto: del resto tre streghe gli avevano già pronosticato un futuro regale! Macbeth invita il Re a passare la notte nel suo castello di Inverness, e sospinto dalla insaziabile ambizione della moglie, lo uccide barbaramente con lunghi pugnali. Lady Macbeth contribuisce al delitto spargendo il sangue di Re Duncan sulle guardie poste alla difesa del sovrano dopo averle drogate. Al risveglio Macbeth, eccellentemente interpretato da Gabriele Lavia, viene designato Re di Scozia. Il Macbeth diretto da Lavia si avvale del rilevante contributo dello scenografo Alessandro Camera, che aveva già raggiunto un encomiabile livello ponendo Duncan su di un alto basamento – in un letto posto in modo da divenire dopo l'assassinio un regale catafalco. Ma altre scene sono memorabili: ad esempio quelle della cena offerta dal nuovo Re ai dignitari di corte, schierati di fronte al pubblico sui loro scranni secondo lo schema famoso della cena di Leonardo. E qui ha inizio anche il vaneggiamento e l'angoscia di Macbeth, che non raggiungerà mai il suo seggio regale, in quanto lo vedrà sempre occupato dal corpo martoriato di Banquo. Sono ancora da citare la scena in cui Lady Macbeth seminuda va avanti e indietro lungo il palcoscenico, detergendosi le braccia dal sangue di Duncan; la discesa dall'alto al centro del fondale di un'armatura da cavaliere d'epoca a braccia aperte, che Macbeth non osa mai indossare, infine la vista di Lady Macbeth impiccata ad un pennone ed il movimento della foresta di Birnam, mimato da soldati in divisa in fila compatta, con fronde d'albero sul capo annunciano a Macbeth la fine del suo regno. Messo a forza a cavalcioni di una sedia, l'usurpatore è abbattuto con il classico colpo alla nuca. A Gabriele Lavia, regista e attore, al costumista Viotti, a Giovanna Di Rauso, Lady Macbeth e a tutti i bravissimi comprimari va il merito di averci regalato uno spettacolo esaltante e innovativo, che il pubblico ha applaudito a lungo. Nella serie di incontri preordinati da Maurizio Giammusso con personaggi del teatro di prosa, Lavia è tornato in palcoscenico al Teatro Quirino, al termine dello spettacolo pomeridiano del 9/11/2009 ed ha esplicitato la sua idea di teatro, al quale egli assegna un'alta meta, non inferiore a quella della filosofia. Il teatro deve interrogarsi sul fine ultimo dell'esistenza umana e scandagliare i meandri tortuosi dell'animo dell'uomo. E indica nell'Edipo Re l'archetipo del dramma da meditare.

Fernando Bevilacqua

Si spara come nei telefilm

Alcuni lettori mi hanno chiesto perché non avevo scritto dell' Amleto di Pietro Carriglio. La risposta è nel programma di sala del Macbeth di Gabriele Lavia, o nel programma della prossima Festa di Napoli. In quest' ultimo è annunciato un nuovo spettacolo di Antonio Latella. Che cosa metterà in scena Latella? Niente meno che la Trilogia della villeggiatura di Goldoni. Che cosa può avere indotto Latella a riproporne un' edizione dopo Castri, Bucci-Vetrano, De Fusco, Servillo? Al di là delle sue intenzioni, quel che conta è l' uso, ovvero il fatto che la gente di teatro poi si lamenta che il Ministero o gli enti locali tagliano i finanziamenti. Non sono gli stessi teatranti e direttori artistici i primi responsabili? Loro, con la loro inerzia, la loro avidità, la loro credenza che il pubblico sia ebete e che brami di vedere sempre le stesse cose; che esso, il pubblico, sia appigliato al teatro dall' esile filo della riconoscibilità di un titolo e non piuttosto dalla novità, dall' ignoto, dall' imprevisto. Il programma di sala di Lavia propone uno spietato elenco dei Macbeth prodotti in Italia dal 1916. Che cosa implica un elenco del genere? Non che il Macbeth sia un imprescindibile capolavoro, che si debba tornare a vedere «domani e domani e domani», ma che così procedendo, un teatro riduce le proprie chances di conoscenza fissando un ristrettissimo canone di opere, una specie di scheletro della drammaturgia mondiale. Ho detto scheletro, non carne viva e palpitante e sorprendente: non a caso, chi voglia uscire da questa condanna è così prigioniero del sistema da non saper pensare che a romanzi da ridurre, come se le biblioteche non fossero piene di drammi o commedie. In quanto al Macbeth di Lavia, scorrendo il famigerato elenco, ho scoperto che vi compariva lo stesso Lavia. Aveva allestito un Macbeth nel 1986 e io, benché lo avessi visto, lo avevo dimenticato. Naturalmente, che un artista sia scontento di quanto ha fatto è nelle cose. A tanto maggior ragione se lo spettacolo precedente era così infelice, come leggo in quanto allora scrissi. Osservavo in Lavia un che di ampiamente prevedibile (nei suoi spettacoli): un' enfasi posta su di sé, un tutto ridurre a una dimensione personale. A distanza di 23 anni bisogna riconoscere che le cose sono cambiate. Il Macbeth del 2009 ha un' altra direzione. Penso a un saggio di Stanley Cavell, «Il pallore di Macbeth»: per il filosofo americano, nel melodramma (così lo definisce) di Shakespeare si vede - come sarà prassi consueta negli storici delle Annales - una riduzione della Storia a storia privata, alla storia di un matrimonio. In Macbeth si coglie, del matrimonio, l' aspetto magico; come il non detto operi nella mente del coniuge: uno influenza l' altro senza che neppure lo voglia. Il pallore è il risultato di questo vampirismo spirituale. L' altezza e magrezza delle tre streghe e di Giovanna Di Rauso (Lady Macbeth) mi fa pensare che tra questi personaggi vi sia una non casuale corrispondenza fisico-morale. Ma ciò che per Cavell è pallore, in Lavia è infantilismo, incapacità di fronteggiare gli eventi: lo si vede nei grandi cappotti di pelle nera in cui gli sposi naufragano, abbracciandosi. Peccato che il contesto sia così (facilmente) buio, così fumoso. Peccato che i soldati usino pistole e fucili, impugnando le armi come nei telefilm. Peccato che tutto sia così urlato, o così ingolato da sbriciolare il testo in un gioco di prestigio recitativo, fino al punto di nuovamente vanificarlo nella persona del suo interprete.

Franco Cordelli

Le mani rosso sangue

Macbeth, quello di Shakespeare, è un re dark, ossessionato e cattivissimo, che ben può servire all'autoanalisi di un artista. Gabriele Lavia deve averlo scelto anche per questo (come a suo tempo Otello), oltreché per il paradigma d'ingordigia e di potere di cui è pregna la sua vicenda. Ne ha tratto uno spettacolo figurativamente superlativo, teatralmente denso, psicanaliticamente conturbante, in scena dall'altra sera all'Argentina di Roma (fino al 29 aprile) per la traduzione di Alessandro Serpieri e la regia dello stesso Lavia, protagonista nei panni di Mac.
Tre (probabilmente) i livelli di lettura: il metateatro di cui l'attore mai fa a meno, rappresentato qui da un lacerto di camerino sulla sinistra del boccascena e dalla "solita" catasta di giocattoli, bauli e seggioline sulla destra; la beatitudine visiva ottenuta con una ridda di preziose citazioni pittoriche (da Fussli a Balthus, da Everett Millais a Bacon); la rappresentazione della tragedia shakespeariana vera e propria, alla quale nulla viene a mancare, pur se i costumi maschili sono divise militari attribuibili alla seconda guerra mondiale o ad uno qualsiasi degli odierni conflitti europei, e le pistole si mischiano senza complessi con spade e pugnali.
Lavia fa sorgere le streghe che predicono la corona a Macbeth da fumiganti recessi di cimitero e di palude, nude, belle, impudìche, capaci di attorcigliarsi come serpi attorno al corpo del futuro re, pauroso e insieme lascivo. Colloca lo scempio di Duncan e dei suoi uomini in una dimensione metafisica che oscilla fra la camera nuziale degli assassini, immersa nelle tenebre, e la pira di velluto rosso sulla quale Macbeth finge di disperarsi al cospetto del sovrano ucciso. Trascina la Lady, motore immoto del dramma (Giovanna Di Rauso, vocalmente un po' flebile e ansimante, ma perentoria nelle sue nudità dannunziane), dal furore ambizioso per il trono fino a una blasfema, indimenticabile dichiarazione di appartenenza alle forze del Male. Isola in spazi sospesi, all'apparenza rischiarati dalla sola luce delle candele, la cena spettrale che gli usurpatori, Mac e la sua donna, offrono ai cortigiani sbigottiti: il fantasma di Banquo, lordo di sangue, appare al re, al re soltanto, e lo obbliga a vacillare. Organizza un sabba di gran fascino quando le streghe, evocate dal sovrano, gli rivelano, in un groviglio di corpi, che nessun "nato da donna" potrà dargli la morte... Con punte geniali al momento di isolare Macbeth, stralunato e mugghiante nel famoso monologo finale, davanti a un'armatura stecchita, con le braccia aperte come un crocifisso; oppure quando la grande foresta di Birnam avanza verso l'usurpatore (per Lavia e in Lavia comunque e sempre dubbioso della propria spietatezza) in forma di soldati azzurrati che reggono rami rilucenti. La conclusione è brutale, allucinata. Di Macbeth, a tratti inalberato su stivaletti a tacco alto, rimangono il corpo a terra, la testa mozza agitata nell'aria. Altrettanto lancinante la fine della Lady, che appare in un flash, impiccata, sul fondo: pochi secondi di orrore senza fine. Il segno unificante di questo spettacolo a tre licelli? Forse proprio l'incertezza che attanaglia Glamis sulla via del delitto. Senza mollarlo un solo istante. E non disturba, al contrario, la sua donna, determinata al sangue con una foia maschile che non appartiene al consorte. Il resto, come già detto, è bellezza. Compresi i segnali d'arte e d'infanzia fedelmente collocati dal regista alle soglie della rappresentazione, come già detto, a mo' di propilei. Il cast è composto, fedele, efficiente. Lavorano, "pallidi" al confronto del mattatoriale protagonista, Maurizio Lombardi, Biagio Forestieri, Patrizio Cigliano, Mario Pietramala, Alessandro Parise, Michele Demaria, Daniel Dwerryhouse, Fabrizio Vona, Andrea Macaluso, Mauro Celaia, Giorgia Sinicorni, Chiara Degani, Giulia Galiani. Le scene (egregie) le firma Alessandro Camera; gli impressionanti costumi, Andrea Viotti. Musiche di Giordano Còrapi; luci di Pietro Sperduti.
Un Macbeth da non perdere.

Rita Sala

Ultima modifica il Mercoledì, 09 Ottobre 2013 13:31

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