Un progetto di Lino Musella e Tommaso De Filippo
Tratto da appunti, articoli, corrispondenze e carteggi di Eduardo De Filippo
Con Lino Musella
Musiche dal vivo Marco Vidino
Foto Mario Spada
Produzione Teatro di Napoli-Teatro Nazionale, Cadmo Associazione Culturale
Teatro Elfo Puccini, 15 giugno 2024
“Che cosa pensa durante le sue famose pause?”. “Penso… 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8!”. E’ una delle ultime battute dello spettacolo di Lino Musella dedicato a Eduardo. Una raffica di domande poste da un intervistatore malizioso cui il grande attore risponde con la sua tipica arguzia aforistica. L’ultima battuta è sulla imprescindibilità dell’attore a teatro, e immediatamente dopo la costruzione di “legnetti” (pezzi di cantinella tagliati corti) che si vede eretta fin dall’inizio su una piattaforma ad altezza d’uomo sospesa dal graticcio – nella quale si può cogliere un’allusione al cantiere del Teatro San Ferdinando (e a tratti una prospettiva di periferia cittadina) – crolla rumorosamente. “E ora dobbiamo ricostruire ancora questo presepe”, commenta con ironico sconforto il protagonista. Partiamo da qui, perché forse è qui la chiave del lavoro di Musella. Da un lato l’Attore (Eduardo, ma pure Musella) come forza magnetica nel cui campo di forze vengono attratti i materiali più eterogenei, i quali prendono un ordine quasi “provvidenziale”, sottoposti al magnetismo ossimorico della presenza; dall’altro la necessità disperata e disperante di trovare una casa a questo Attore; il che volle dire per Eduardo anche misurarsi con l’intrico paludato e paludoso della politica designata a emanare le famose “provvidenze” (leggi “sovvenzioni”, ma il primo termine è più carico di ironia malignosetta). E Musella lo ricostruisce, “questo presepe”, richiama in scena i frammenti più significativi della densa biografia teatrale dell’attore napoletano: il progetto del San Ferdinando, il rapporto con i fratelli Peppino e Titina; con il figlio Luca; con il ministero; con il Banco di Napoli; con i ragazzi detenuti del carcere minorile Filangeri; la nomina a senatore a vita e soprattutto la tenace e appassionata riflessione sullo stato del teatro nell’Italia a lui contemporanea, con la denuncia di un sistema di sovvenzioni che cade a pioggia, bagnando tutti e poco riconoscendo il merito, il valore artistico. Lo spettacolo procede per frammenti: sono comunicazioni in forma di lettera, riflessioni consegnate al “Vittò” che sta tra il pubblico/è il pubblico (e a cui Musella rivolge un invito esplicito circa a metà spettacolo: saper gestire il respiro nella pronuncia di una frase e spiegarlo con un esempio che il pubblico è invitato a ripetere, in coro); sono le interpunzioni del trillo del telefono, epitome dell’invadenza inetta della politica che per voce di un ministro vorrebbe lo Stabile di Napoli diretto dal grande attore, ma poi nicchia sulla durata del mandato (“quinquennale signor Ministro, non chiunquennale!”). La voce di Musella, sonora, chiara e quasi stentorea, ben timbrata regge tutto il gioco scenico. Rimane un dubbio sul modo in cui si dipana il continuum di azioni che accompagna il dire: Musella martella chiodi, costruisce strutture con pezzi di cantinelle, monta un faro su un bilancino e poi una struttura di ferro a sbarre; tuttavia, malgrado l’intuizione drammaturgica folgorante che ne sta alla base, e pur nell’impeccabilità dell’esecuzione, rimane un’impressione di distanza tra il flusso testuale e quello delle azioni. Come se il gestire fin troppo quotidiano di Musella, la sua presenza energetica, il suo stesso camminare, non dicessero abbastanza; come se richiedessero una diversa manipolazione espressiva; come se il corpo dell’attore rimanesse pura funzione di questo lavorio e non quest’ultimo funzione di un corpo attoriale. Franco Acquaviva