di e con Saverio La Ruina
Disegno luci Dario De Luca
Collaborazione alla regia Cecilia Foti
Audio e luci: Mario Giordano
Allestimento: Giovanni Spina
Dipinto: Riccardo De Leo
Amministrazione: Tiziana Covello
Produzione: Scena Verticale
Organizzazione generale: Settimio Pisano
Teatro dei Tre Mestieri- Messina: 20 dicembre 2022
I nomi delle vie hanno qualcosa di epico, di tragico, di poetico. Ti ricorderai sempre la Via Merulana a Roma dove accadde un brutto pasticciaccio ad opera di Emilio Gadda, la Via Pal di Ferenc Molnar a Budapest che denunciò la mancanza di spazi per il gioco dei più giovani, la stretta Via Castellana Bandiera di Palermo, romanzo e film di Emma Dante, costituì un campo di battaglia per due donne testarde rimaste bloccate con la propria auto sino a tarda notte, una sorta di duello silenzioso fatto di rabbiosi sguardi e rabbia repressa finito tragicamente con la morte di una delle due. A Messina la Via Cicerone, per tanto tempo sterrata, fu il regno dei giochi dei ragazzini del quartiere (compreso chi scrive) a due passi dal Duomo e soltanto da qualche mese è stata bellamente restaurata con eleganti mattoni grigi di pietra lavica. Non dimentico la genovese Via del Campo di Fabrizio De Andrè dove risiede una graziosa puttana dagli occhi grandi color di foglia, né la milanese Via Gluck di Adriano Celentano dove un tempo c’era l’erba e poi fu eretta una città. Adesso sale alla ribalta la Via del popolo di Castrovillari dove vi abitava e continua a farlo Saverio La Ruina, diventata una pièce teatrale autobiografica, interpretata e diretta magnificamente da lui stesso tutto da solo, come sempre con toni garbati, (espressi già in Dissonorata, La Borto, Italianesi e altre, note pure all’estero), ruotante attorno ai suoi anni infantili e adolescenziali, da quando la propria famiglia dal monte Pollino si trasferisce a Castrovillari col suo bel Castello Aragonese. Lo spettacolo, in dialetto e in lingua, inizia con La Ruina che cammina al ralenti sulla scena del Teatro dei Tre Mestieri, puntellata da piccoli lumi accesi che indicano tombe e nomi di chi vi è sepolto. Sui pantaloni e maglietta neri La Ruina indossa una giacca bianca, che terrà sino alla fine, ad indicare il suo primo lavoro da cameriere nel bar Rio acquistato dal padre Vincenzo e dallo zio Nicola, firmando al vecchio proprietario un’infinità di cambiali da poterci tappezzare l’intero locale. Il racconto procede come un amarcord felliniano con molti flashback: carezze o sputi dell’amico Tonino sulle severe foto di chi in vita s’era comportato bene o male nei loro confronti: confessione sulla tomba del padre che scriverà un lavoro su di lui e Castrovillari, sapendo già che avrebbe dissentito, giacché per lui avrebbe preferito un lavoro meno effimero: l’arrivo di notte in città su un camion con madre e fratello al seguito ha il sapore viscontiano di Rocco e i suoi fratelli quando giungono in una Milano imbiancata di neve: i palazzi pieni di gente, le macchine lungo le vie popolate da negozi d’ogni tipo illuminati a giorno, fanno sentire il piccolo La Ruina d’essere entrato in un paese delle meraviglie, rimanendo ipnotizzato davanti alle lucette mobili d’un flipper o a delle macchinette in cui infilandoci una moneta fuoriescono per incanto noccioline e pistacchi. Erano gli anni ’60 e la vita scorreva lentamente, quasi come quell’orologio molle in fondo alla scena, che ricorda il dipinto La persistenza della memoria di Dalì (ripreso qui da Riccardo De Leo), simbolo dell'elasticità del tempo, quando la gente si conosceva di persona e per nome e ci si fermava a chiacchierare non solo del tempo e della salute, in quella Via del Popolo ricca di voci e di rumori, di botteghe di generi alimentari e di officine artigianali di fabbri e falegnami, pure l’affolatissimo Cinema Astor col suo proiezionista Giannino, quasi un Alfredo di Philippe Noiret di Nuovo Cinema Paradiso e le cui pellicole venivano catalogate con i rispettivi interpreti dal piccolo La Ruina. Il quale ricorda le musiche e le canzoni di quegli anni dei Beatles e dei New Trolls e le feste da ballo nei saloni delle case o nelle terrazze durante le quali bisognava stare distanti dalle fanciulle almeno trenta centimetri. Sono tanti i personaggi che vengono alla luce nello spettacolo, ma su tutti domina il racconto sul padre Vincenzo che ad un tratto scompare da casa per sedici ore, mettendo in ansia moglie, parenti e amici, la stessa polizia che la cerca e che si prenderà il merito del ritrovamento, quando invece sarà lo stesso Saverio La Ruina che lo raccoglierà infreddolito alle luci dell’alba e per niente impaurito. Adesso Castrovillari è una piccola città globalizzata, senza più il Bar Rio; i negozi al dettaglio hanno lasciato il posto ai centri commerciali, la gente non s’incontra più, sono scomparse le relazioni personali, ma fortunatamente da 22 anni viene allestito un Festival teatrale denominato Primavera dei Teatri, diventato importante non solo in Italia ma in tutto il mondo, affollato da giovani e da compagnie affermate e meno note. Lo spettacolo, applauditissimo alla fine, girerà per l’Italia e certamente avrà dei ritmi ancora più intensi ed esaltanti.
Gigi Giacobbe