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VITA DI GALILEO - regia Antonio Calenda

Vita di Galieleo Vita di Galieleo regia Antonio Calenda

di Bertolt Brecht, regia: Antonio Calenda
con Franco Branciaroli, e Lello Abate, Giancarlo Cortesi, Daniele Griggio, Giorgio Lanza, Lucia Ragni e con Alessandro Albertin, Giulia Beraldo, Tommaso Cardarelli, Emiliano Coltorti, Emanuele Fortunati, Greta Zamparini
costumi: Elena Mannini, scene: Pier Paolo Bisleri, musiche: Germano Mazzocchetti
coproduzione: Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia e Teatro de Gli Incamminati
Roma, Teatro Argentina, dal 20 marzo al 1 aprile 2007
Milano, Teatro Strehler, dal 23 ottobre all'11 novembre 2007
Teatro della Corte di Genova, 25 novembre 2008

www.Sipario.it, 26 novembre 2008
Il Mattino, 13 dicembre 2007
Panorama, N. 46 2007
Corriere della Sera, 30 ottobre 2007
Avvenire, 22 marzo 2007
Il Giornale, 28 marzo 2007

Uno spettacolo come questo Vita di Galileo, bruciante, pervaso da un afflato brechtiano originale e fantasioso, sorprende e anima in tempi di offuscamento ed eclissi delle ideologie alternative al “pensiero unico”. Calenda e Branciaroli danno vita a un allestimento coraggioso, che dal 2007 sta girando l’Italia e che meritoriamente il Teatro di Genova ha proposto in questo finale di 2008 nel capoluogo ligure. Coraggioso, perché bisogna essere audaci nel portare in scena un Brecht non addomesticato e ripulito dalla sua carica eversiva, come nella maggior parte dei casi è accaduto, con brillanti ma isolate eccezioni tipo Pippo Delbono, negli ultimi anni. Il Brecht di Calenda, per fortuna, rispetto alle recenti edizioni in stile Maria De Filippi di straordinari capolavori, come l’Opera da tre soldi, del drammaturgo di Augusta da parte di alcuni registi nostrani, è tutta un’altra storia.

A spiccare, nel mezzo di un rigoroso gruppo di quelli che Silvio d’Amico chiamava “attori-maestranze”, cioè attori al servizio del regista, in questo caso un Calenda teso a un’astrazione di sapore siderale, anche e soprattutto nelle scene, è ovviamente Branciaroli. Che dà un piacere immenso – tanto aristotelicamente, ovvero dal punto di vista emotivo, quanto brechtianamente, vale a dire dal punto di vista della comprensione razionale – a vederlo tirar fuori tutti gli assi dalla manica di una recitazione, la sua, che esplora fino al virtuosismo le risorse del linguaggio d’attore. Falsetti, voce piena, rotonda, di petto, che d’improvviso si sgretola per poi ricomporsi. E via con le accelerazioni, i rallentamenti ritmici, i toni strozzati, soffiati e poi urlati. Tutto questo Branciaroli lo fa, stando bene attento a non usare tali risorse espressive per distruggere, come farebbe, magistralmente peraltro, un Carlo Cecchi, il personaggio che sta recitando in palcoscenico. Anche perché Brecht non è un autore della tradizione borghese e i suoi personaggi, più che personaggi, sono idee, anzi ideali. Ideali, ai quali Branciaroli nel ruolo di Galileo fa di tutto per conferire, dialetticamente, consistenza, profondità, umanità. E fa un memorabile centro.

Yuri Brunello

Un Galileo tra carnalità e nevrosi

Davvero è impossibile, per chi oggi mette in scena «Vita di Galileo», seguire Brecht sulla strada dell'esasperato ideologismo che lo spinse, dopo la bomba di Hiroshima, a riscrivere per ben due volte quel dramma, ma riuscendo solo a toccare l'esito - francamente assurdo - di un Galileo assimilato a una sorta di Oppenheimer del Seicento e qualificato, addirittura, come un «farabutto» e un «criminale sociale». Non ci si può sorprendere, insomma, di fronte a quanto Hanns Eisler, l'autore della colonna sonora di «Vita di Galileo», fu costretto a dichiarare: «Se una volta mi si loderà, lo si farà perché ho resistito al testo, l'ho interpretato e riformulato a modo mio». In breve, il conflitto messo in campo da Brecht - quello fra la scienza e il potere, fra la scienza e la fede, fra la scienza e l'etica e, riassumendo, fra lo spirito rinascimentale e la reazione controriformistica - oggi si pone in termini assai diversi. Oggi, sempre per riassumere, il problema non è, evidentemente, il conflitto fra la scienza e il potere, ma il conflitto fra la scienza e il potere della scienza. Meno male, però, che - vengo all'allestimento di «Vita di Galileo» presentato al Bellini dallo Stabile del Friuli-Venezia Giulia e dal Teatro de Gli Incamminati - Antonio Calenda contraddice sul palcoscenico il filosofismo che (proprio non riesce a toglierselo, quel vizio) riversa a man bassa nelle note di regia. Voglio intendere che, almeno in linea generale e almeno a tratti, lo spettacolo ottiene il non trascurabile risultato di evadere, soprattutto con la chiave dell'ironia, dalla prigione del «messaggio» ad ogni costo. Vedi, tanto per fare un esempio, la processione delle caricature del Granduca di Firenze e dei cardinali che qui si trasforma nella filastrocca di un cantastorie in paglietta e bastoncino di bambù ritagliato pari pari dal varietà napoletano. Ma perché, poi, far rientrare dalla finestra l'ideologismo cacciato dalla porta vestendo Galileo, a fronte dei costumi seicenteschi degli altri, con una giacca a metà fra la casacca prediletta da Brecht e una giubba militare alla Che Guevara? E perché, proprio ad onta dell'ideologismo, tagliare via di netto la scena della peste, chiarissima allusione al nazismo? Le cose migliori, in definitiva, appartengono a taluni degli attori. Franco Branciaroli, con una recitazione accelerata, disegna di Galileo un ritratto, persuasivo e godibile, a metà fra la nevrosi, l'accidia e la carnalità. E la governante di Lucia Ragni è connotata da una bonomia intinta nel fiele che sembra arrivare dritta da uno dei «cunti» neri di Basile. Piuttosto incolore, invece, il rimanente del cast, con le eccezioni di Giorgio Lanza nel ruolo di Sagredo, l'amico di Galileo, e di Lello Abate in quelli di Cristoforo Clavio, dell'astronomo e di un monaco oltre che del cantastorie di cui sopra.

Enrico Fiore

Bentornato Brecht Allo Strehler di Milano «Vita di Galileo» con uno strepitoso Branciaroli

Beato il teatro che non ha bisogno di eroi, ma soltanto di spettacoli ben fatti. Beata la scienza che combatte i dogmi senza diventare a sua volta dogmatica, come oggi accade troppo spesso. E beato anche Bertolt Brecht, materialista non volgare, il cui astro drammaturgico riemerge a poco a poco da una lunga, forse immeritata eclissi, e riverbera la sua luce fredda attraverso il cannocchiale antiaristotelico che Galileo punta, indomito, verso il cielo. Ma sì: torna pure da noi, vecchio Bertolt, tutto è perdonato. Torna a parlarci col dito didattico alzato del grande scienziato, ma anche con i suoi timori e tremori, con i suoi gai appetiti, in questa intensa e compatta Vita di Galileo, impeccabile prova registica di Antonio Calenda, al teatro Strehler di Milano fino all'11 novembre. La riuscita dello spettacolo molto deve a un Franco Branciaroli in strepitoso statodi grazia. Capace di sottolineare, in Galileo, la tenacia e la marpioneria, l'ansia di ricerca e quell'indispensabile attaccamento alla vita che né la scienza né l'Inquisizione poterono mai fargli abiurare.

Roberto Bartolini

Galileo: bravo Branciaroli, rigorosa la regia

Perno della rigorosa e lucida messinscena di Antonio Calenda del grande testo di Bertolt Brecht «Vita di Galileo» è l' interpretazione che il bravo Franco Branciaroli dà di Galileo, nel quale la dismisura del genio, la voracità di sapere si fondono con umane debolezze e paure. Brecht affronta non soltanto il problema etico, filosofico, scientifico che la rivoluzione galileiana pose al mondo intero, ma anche il tema delicato e complesso, ieri come oggi, del rapporto tra il potere e la libertà della scienza mettendo l' accento sul doloroso confronto tra coscienza di chi ricerca, bisogno di verità e uso delle scoperte. Galileo Galilei fu costretto dalla Chiesa secentesca all' abiura, obbligato a negare la verità delle sue scoperte, a tradire se stesso e in definitiva la scienza. Lo fece, come Brecht fa balenare nella prima stesura che porta la data del 1938-39, per poter seppur strettamente sorvegliato continuare a lavorare (in prigionia infatti scrisse «Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze»)? Oppure, come nella versione del 1947, per «paura del dolore fisico», senza machiavellici secondi fini? Sotto un cielo da scrutare notte dopo notte - la sobria scena è di Pier Paolo Bisleri - il Galileo di Branciaroli è soprattutto un uomo. È l' intellettuale come Brecht, del quale porta la grigia giacca mentre gli altri attori indossano costumi d' epoca, che rivendica il libero esame delle «novità» nate dall' osservazione, senza lasciarsi condizionare da vincoli esterni. Galileo è un uomo che crede che la ragione di ciascuno non debba rinunciare allo spirito critico facendosi schiava dell' intelletto altrui, ma soccombe e perde. Branciaroli, affiancato in scena da un' ottima compagnia, ne cesella il lucido sentire, la rabbia della ragione prima di far scivolare il suo Galileo, dopo l' abiura, in un bofonchiare e borbottare da vecchio stanco, con un discutibile scarto interpretativo.

Magda Poli

Galileo, un gigante anche in scena

È arrivato al momento giusto, nel pieno della sua maturità artistica, Galileo per Franco Branciaroli. Galileo l'uomo che ha aperto vie nuove alla scienza e a un mondo, ad una società che sentono il bisogno di uscire dall'oscurantismo. Desiderava il bravissimo attore milanese da tempo affrontarlo e lo ha meditato a fondo questo Vita di Galileo, forse il capolavoro di Brecht. Testo più volte rielaborato dal suo autore e che da oltre mezzo secolo viaggia (ora a produrre è lo Stabile del Friuli-Venezia Giulia unitamente al Teatro de Gli Incamminati; in scena al romano Argentina) con la forza e l'autorevolezza di un dramma scespiriano sui palcoscenici del mondo. Una delle cose forse più belle che il drammaturgo di Augusta abbia scritto, una delle più tempestose e piene di stimoli sotto la splendida tranquillità di quelle quindici scene da grande arazzo con cui l'opera è costruita e che il regista Antonio Calenda distende davanti allo spettatore senza cercare grandi effetti, con apprezzabile sobrietà.

Un racconto calmo Vita di Galileo, dove i conflitti drammatici sono sempre come trattenuti. Che rimanda agli anni decisivi nella vita del fisico pisano; le sue intuizioni e scoperte, i suoi rapporti con la giovane figlia Virginia e con i discepoli, con gli scienziati e i suoi rivali, con la Chiesa soprattutto che ancora non era in grado di accettare le sue teorie rivoluzionarie e a cui si piegherà figlio devoto. Una grande tela, che trattando la storia con fantasia realistica, coglie le contraddizioni di un'epoca - per un verso ancora legata ai pregiudizi aristotelici, rigidamente teologale e per altro già proiettata verso le nuove avventure del pensiero - ribaltandole sull'oggi. Fermandosi sui confronti fra la libertà e la responsabilità della scienza e le necessità del potere che si imperniano sull'abiura della teoria del movimento di rotazione della terra intorno al sole davanti all'Inquisizione e poi ritratta privatamente, continuando nel silenzio i suoi studi e scritti. Ho detto che Calenda costruisce uno spettacolo di bella compostezza, mantenendolo in una funzionale scena fissa di Pier Paolo Bisleri la quale trova saliente simbolo in una grande bianca porta che spicca su un immenso cielo azzurro costellato di stelle verso le quali Galileo punta il suo cannocchiale.

Uno spettacolo dove Branciaroli emerge per una sapienza attorale che non ha al momento rivali. Un Branciaroli il cui Galileo appare lontano da quel tocco di cordialità, di bonomia che gli dava il massiccio Tino Buazzelli (qualcuno certo ricorderà la storica messinscena di Strehler). Condotto il personaggio con un risvolto moderno. Moderno e incisivo. Un Galileo che nella prima parte si muove, testardo e orgoglioso, quasi capriccioso, con una punta di nevrosi (la voce, la splendida voce di un Branciaroli capace di tutti i registri, che a tratti si fa beffarda) e poi a chiudersi, ma non a spegnersi, in un "regale" mutismo Tra i suoi compagni, oltre a Lucia Ragni e Lello Abate, una bella compagnia di giovani.

Domenico Rigotti

Un «Galileo» audace un po' Einstein e un po' sognatore

Fin dal clamoroso esordio italiano del 1963, nella mirabile regia di Giorgio Strehler con Buazzelli protagonista, pesa su Vita di Galileo una interdizione che sa di intimidazione. Dal momento che quasi ogni interprete della straordinaria biografia ha puntato tutto sul conflitto tra l'assillo della ricerca e la staticità del potere. Esemplata nel grande «dramma a stazioni» d'eredità espressionista (la prima stesura di Leben des Galilei risale al'36) nella guerra ad oltranza mossa dalla Chiesa all'inarrestabile work in progress delle scoperte dello scienziato. Con l'inevitabile conseguenza di scorgere nel nemico della matematica pura non solo il Vaticano che giunge a minacciare la tortura all'audace indagatore dello spazio celeste ma ogni potere repressivo.

Da Strehler in poi, sia pure con diversi esiti espressivi e una connotazione sempre più spregiudicata nel disegno del protagonista, tutti i teatranti che hanno voluto cimentarsi con quest'opera han preferito citare alla lettera l'impressionante silloge del drammaturgo di Augusta sorvolando sulle eterne implicazioni cui è sottoposta la verifica empirica. Per fortuna, a rimettere le carte in gioco con un'audacia che non ha precedenti, arriva Franco Branciaroli. Un attore che mai si è limitato a ricalcare le vie intraprese da altri preferendo lo scandaglio inesorabile del nuovo. Ed è a un interprete come lui, di specie taumaturgica per la sua incredibile capacità di dar vita allo spazio illuminando lo spettacolo al di là di chi ne firma la regia, che questo Galileo deve la sua sostanziale unicità.

Inquadrata la vicenda tra un omaggio ad Einstein che ammonisce sui pericoli dell'energia e il maledetto fungo atomico di Hiroshima, Branciaroli in nero colletto da clergyman a mezza via tra il sacerdote della nuova scienza e Sarastro, il mozartiano poeta della luce che investiga il cosmo nel Flauto magico, illustra con sapienza oracolare il tortuoso cammino di chi codifica i segni dell'habitat in cui viviamo. In un exitus memorabile cui concorre l'appassionato e veemente Emiliano Coltorti nelle vesti dell'amato discepolo Andrea Sarti.

VITA DI GALILEO - di Brecht Gli Incamminati e il Teatro Stabile di Trieste. Con Franco Branciaroli. Roma, Teatro Argentina fino all'1 aprile.

Enrico Groppali

Ultima modifica il Domenica, 11 Agosto 2013 15:11

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