Fra gli attori contemporanei che, da subito, hanno attratto la mia attenzione, senza dubbio vi è Paolo Mazzarelli. Interprete dotato di straordinaria versatilità, dalla voce espressiva e dallo sguardo eloquente. Ciò che colpisce della recitazione di Mazzarelli è la sua tendenza a non inseguire un’interpretazione scontata del personaggio. Al contrario, egli ne ricerca la complessità. Perché, come il teatro di qualità vuole, non vi è azione drammatica nella quale manchino ambiguità e contrapposizione.
Ma Paolo Mazzarelli non è solo attore, ma anche drammaturgo. I suoi testi costituiscono una testimonianza diretta e molto originale rispetto a ciò che il teatro rappresenta per lui e dei confini entro i quali è necessario che la drammaturgia si spinga per farla uscire dal ristagno nella quale versa da troppi decenni.
Di questo e molto altro (dei suoi inizi, del presente e del futuro che lo vedrà protagonista) abbiamo conversato con Paolo Mazzarelli – persona intelligentissima, generosa, sensibile e di gran rigore – di fronte a un caldo e piacevole caffè.
Paolo, che piacere incontrarti.
Piacere mio. Grazie davvero.
Ho letto che tu, prima di fare teatro, eri uno studente di filosofia.
Sì, è vero. Avevo diciotto anni, come molti ragazzi a quell’età non sapevo che fare, e ho deciso di studiare filosofia. Arrivato a due esami dalla laurea, mi sono fermato. Di quegli anni di studio mi è rimasta credo una buona disposizione alla ginnastica mentale, e nulla più. Anche perché nel frattempo era iniziato il teatro. A 19 anni entrai alla Paolo Grassi di Milano.
Che ricordo hai di quella scuola?
Mi sentivo perso, non apprezzato, confuso. Con alcuni compagni che si sentivano come me abbiamo fondato una compagnia già dentro la scuola, e a furia di provare, sbagliare, riprovare, risbagliare, alla fine abbiamo cominciato a capirci qualcosa. Dei miei insegnanti, nutro un bellissimo e prezioso ricordo di Danio Manfredini. La sua umanità ed i suoi insegnamenti mi sono rimasti nel cuore.
E Paolo Mazzarelli, come allievo, com’era?
Modesto. Il mio è stato un percorso a rilascio lento.
Drammaturgo, attore e regista: in quale di questi ruoli ti senti più a tuo agio?
Il mio primo spettacolo fu Pasolini Pasolini, nel 2001. Da allora, nulla mi attrae e mi sfida quanto la possibilità di creare dei lavori: sognarli, sentirli, pensarli, scriverli e infine recitarli, metterli in scena. È il percorso che mi interessa, più ancora del risultato.
Ti resta più facile interpretare un testo scritto da te o da altri autori, siano essi classici o contemporanei?
Ciò che scrivo io lo scrivo per me, consapevole dei miei limiti e dei miei punti di forza, quindi ovviamente è come indossare un abito su misura: calza meglio. Ma non sempre si può percorrere la via facile, e confrontarmi con autori infinitamente migliori di me, che magari non so come affrontare, probabilmente mi fa crescere molto di più, sia come attore che come autore. Nel mio ultimo lavoro, Soffiavento, guardo al Macbeth di Shakespeare e uso la mia scrittura come strumento per avvicinarmici.
Parlaci un po’ di questo spettacolo
Il protagonista è un noto attore immaginario: Pippo Soffiavento. Mentre è in scena col suo ultimo lavoro, il Macbeth appunto, qualcosa non va. Lo spettacolo si interrompe, e alla fine, invece del ritratto del re di Scozia, va in scena l’autoritratto di colui che avrebbe dovuto interpretarlo: Pippo, appunto. È soprattutto una riflessione sul presente, su quello che il fare teatro significa, per me, oggi.
Condividi quello che Brecht affermava sulla rappresentazione dei classici: avere, cioè, attenzione all’umanità che mettevano in scena e, attraverso di essa, operare una critica sulla società contemporanea in cui si vive senza fare né opera di recupero archeologico, né di modernizzazione totale priva del rispetto per il classico stesso?
Non lo so, non sono certo di capire la domanda. Posso certamente dire che mi interessa l'umano, e che l'interesse per l'umano è già interesse per il sociale. Almeno credo.
Da dove inizia, per te, la scrittura di un testo teatrale?
In genere comincio a scrivere sempre partendo dal cuore della vicenda che verrà rappresentata. Dopo di che procedo all’indietro o in avanti. Non seguo un ordine cronologico in fase di scrittura.
Ti senti più vicino a un teatro di parola oppure a un teatro che badi esclusivamente al rapporto fra attore e pubblico in sala?
Per me il teatro è soprattutto scrittura. Poi in scena esistono molti modi di scrivere, e non per forza servono le parole.
Beckett e il suo lavoro sulla parola, di riduzione all’essenziale per recuperarne il vero significato: ti piace? Lo condividi?
Confesso che non sono mai riuscito ad amare del tutto Beckett. Non è un giudizio il mio, ovviamente si tratta di un genio assoluto, semplicemente constato che il cuore mi trema per altri autori, per altri tipi di scrittura. Ad esempio, per Koltès.
Che ne pensi dell’immedesimazione? Ritieni che sia giusto, per un attore, inseguirla e realizzarla in scena?
Bisogna fingere bene, tutto qui. Inseguo il finto che sembra vero, e non il vero che sembra finto.
Che ruolo riveste, secondo te, la voce per un attore? Ritieni abbia un ruolo centrale oppure no?
È uno degli strumenti principali, ovviamente. Io non ho un timbro particolarmente potente. Ho dovuto lavorare parecchio per imparare prima a tirarlo fuori, e poi, quando ho cominciato a fare cinema e televisione, a rimodularlo in modo più delicato.
Tu sei attore di teatro, cinema e tv. In quale di questi tre contesti ti trovi più a tuo agio?
Fino all’età di 35 anni ho fatto solo teatro. Quindi credo di essere un attore di teatro, nel bene e nel male.
Da interprete, preferisci i ruoli da antagonista o da personaggio buono e positivo?
Nella buona scrittura, come nella realtà, non esistono personaggi del tutto cattivi o del tutto buoni.
I buoni e i cattivi sono creature immaginarie figlie di scritture mediocri, e quando è possibile bisognerebbe cercare di evitare quelle scritture.
Tu sei sempre stato un attore e un autore che ha privilegiato una drammaturgia originale e innovativa. Perché in Italia è così difficile vedere vere novità in teatro mentre, invece, vi sono quasi sempre spettacoli di repertorio più o meno recente?
Proporre drammaturgia contemporanea, sperimentale per giunta, oggi in Italia è quasi impossibile. C’è la convinzione, a mio avviso sbagliatissima, che gli spettatori non siano in grado di cogliere la novità con interesse e partecipazione. È un errore madornale.
E del momento attuale che ne pensi?
Questo è un momento di crisi totale. Ma la parola crisi, in greco, significa anche crescita. Possiamo sperare solo nell'etimologia, insomma.
Tra i tuoi colleghi con chi ti senti più vicino per affinità, metodo, consuetudine, gusto?
Lino Musella, ovviamente, che essendo stato il mio compagno di lavoro per oltre 10 anni è stato anche il mio principale maestro, la persona cioè dalla quale ho necessariamente imparato, facendo, osservando, provando, di più. Come attori ammiro particolarmente Marco Foschi e Paolo Pierobon, forse anche perché con entrambi ho avuto la fortuna di condividere esperienza intense.
Quale, fra i tanti registi con cui hai lavorato, ricordi con più piacere?
Nekrošius mi ha spinto al limite delle mie capacità interpretative. Gliene sarò grato per sempre.
Come vedi il tuo futuro quando, finito questo terribile momento, si riprenderà finalmente a lavorare?
Chi può saperlo? Di certo, continuerò a provare a fare quello in cui credo.
Pierluigi Pietricola