giovedì, 14 novembre, 2024
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INTERVISTA a GRAZIANO PIAZZA - di Pierluigi Pietricola

Graziano Piazza. Foto Franca Centaro Graziano Piazza. Foto Franca Centaro

Intervistare Graziano Piazza non è un’esperienza comune. È come entrare in una sorta di mondo dove l’esperienza metafisica rappresenta la normalità della vita.
Cosa piuttosto insolita per un attore, che vive solitamente di artifici e finzioni. O di verosimiglianza, come diceva Aristotele.
Ma per Piazza, tutto questo, non conta. La bugia scenica non è che uno, fra i tanti mezzi, per giungere alla Verità; in un cammino continuo di consapevolezza e trasmutazione dello spirito che questo grande e raffinato interprete delle scene internazionali ha intrapreso ormai da anni.
In questi giorni Graziano Piazza è impegnato nell’Edipo di Robert Carsen, impersonando il personaggio di Tiresia.
Da qui siamo partiti per la nostra conversazione. Il viaggio e l’approdo finale sono stati sorprendenti, inattesi ed entusiasmanti.

Come descriveresti l’incontro con Robert Carsen?
Robert Carsen
per me è stata una scoperta. Avevo visto dei video di alcuni suoi spettacoli di lirica e mi erano particolarmente piaciuti. Non credevo, sinceramente, che in prosa sarebbe riuscito a raggiungere quella stessa intensità e quella stessa sintesi di immagine e interpretazione. E invece non solo ha coinvolto 9 attori e 80 persone di coro, ma tutti noi in una essenzialità e semplicità nelle quali il testo è protagonista. Carsen ha restituito l’essenzialità del luogo.

Come hai avuto il ruolo di Tiresia?
Dopo un’indicazione da parte dell’Inda, ho fatto due provini con Carsen. Lui ha una sorta di grazia determinata, che porta a fare con gentilezza, ben sapendo ciò che vuole e a realizzarlo insieme a te.

Ci troviamo di fronte a un Edipo realizzato in chiave moderna. Condividi questa chiave interpretativa?
Non è una attualizzazione. È un segno che avvicina molto il classico a noi. Ma essendo la parola la protagonista, Edipo diviene senza tempo. Io sono un Tiresia che vive per strada, che è cieco, è un barbone. Io sto in scena senza davvero vedere nulla. E quando mi muovo debbo ricordarmi i passi che faccio. Abbiamo lavorato su questo personaggio la cui contemporaneità è al di là del tempo. Come scenografia c’è una scala che porta al potere e che solo Edipo, Creonte e Giocasta possono percorrere. Tutto questo diviene una sorta di Dimensione metafisica, qualcosa che sarà o forse è sempre stato.

Il tuo personaggio lo avevi immaginato diverso da come, poi, Carsen lo ha voluto?
Il mio Tiresia lo avevo immaginato abbastanza così come Carsen. Avevo pensato a un Tiresia non particolarmente eroico. Una persona che borbottava fra sé, che non voleva dire o parlare. Però poi ho seguito le sue indicazioni, ed è stato fondamentale. Il mio Tiresia è un uomo parlato da Apollo. Un medium in pratica. Ma un medium che si è tolto di dosso la rappresentazione per diventare un’esperienza.

In cosa ti somiglia, se ti somiglia?
Mi somiglia in molto. Fa parte di un percorso di vita che ho intrapreso da vari anni che ha a che vedere con i cercatori di verità. Tiresia cerca di mettere la verità nella pratica della parola e del suo essere cieco. E questo fa parte del mio personale percorso di ricerca, nel quale anche io provo a non pensare alla rappresentazione. Tiresia mi ha dato moltissimo. Ho studiato tanto il volo degli uccelli, per esempio, cercando di cibarmi di questo tipo di impressioni e di capirne l’enigma.

Verità del Sé e verità scenica come possono conciliarsi?
La verità scenica ha a che vedere con la Verità. Noi possiamo giungere alla Verità tanto quanto in scena tendiamo ad una verità attraverso la finzione. Tutto è possibile finché Desdemona non deve morire. Ma attenzione: noi non abbiamo la possibilità di comprendere la Verità nella sua assolutezza. Siamo solo una parte di Verità, e di cui la finzione ne è una componente essenziale.

Come ti sei avvicinato al teatro?
Io ero un ragazzo dislessico che faceva fatica a parlare. Ho iniziato a lavorare nel teatro come mimo. Studi vari, il mio percorso di vita con il pensiero Sufi: tutto questo è andato poi di pari passo. E ancora adesso sto cercando di togliermi di dosso l’ego che intasa il canale ricetrasmittente.

Un attore è corpo e voce che si esprimono. Tu li senti come mezzi separati o come un tutt’uno benché distinti?
Corpo e voce li sento uniti. Hanno più a che vedere col pensiero che regola il tutto. Gesti e parole di un personaggio diventano tutt’uno con me. Avverto la ricerca di ciò che veramente voglio dire al mondo, essendo al servizio di qualcuno - autore, regista, luogo – e nel momento in cui io espleto una funzione. Io sono, fondamentalmente, un testimone.

Cosa significa, per te, recitare?
Per me recitare è testimonianza dell’atto che si compie, mai dimenticando che si fa per un pubblico che deve poter vivere di tutte le piccole sfumature dentro una pausa o un silenzio. Penso che un personaggio viva soprattutto di quello che non dice. Ed io, come attore, glielo faccio dire attraverso l’atto stesso del pensare profondamente, a condizione che questo atto sia onesto. È qualcosa di reale, non di fantasioso. Pensare la Verità ti mette in un’attitudine in cui, in quel momento, sei connesso con te e col mondo in cui esisti ed operi.

Ma quando si recita in una compagnia non si è mai soli. Questo tuo percorso di ricerca della Verità, attraverso la verità scenica, come si concilia con i metodi interpretativi degli altri attori con cui ti trovi a lavorare?
Io mi fido molto dei neuroni specchio. C’è la possibilità della risonanza, come dice Peter Brook. Basta mettersi a disposizione dell’altro, senza alcuna pretesa di potere. E quindi lavori per te. A quel punto, tutto diventa un’armonia. Io sono un mattatore non mattatore, credo in una capacità tecnica messa al servizio della relazione. Come dice un vecchio proverbio Sufi: “Due pietre non possono occupare lo stesso spazio, due fragranze sì. Sii fragranza”.

Anche nel cinema è possibile questo?
Certo, ma con la differenza che in questo caso l’accadimento viene poi rielaborato in fase di postproduzione. In teatro, invece, c’è l’immediatezza.

Qual è stato il personaggio da te interpretato che più ti è rimasto impresso?
Il personaggio che mi ha più sconvolto lo interpretati a 48 anni, il Re Lear. Mi segnò per la profondità e il gioco con sé stesso. Di sconvolgente aveva la follia.

Tramite il teatro è possibile giungere all’individuazione del Sé?
Il teatro è sempre stato un ottimo mezzo per il processo di individuazione. Per gli attori e anche per il pubblico. Perché si cerca questo, fondamentalmente: il proprio Sé.

Come descriveresti ciò che provi quando, dalla quita, stai per entrare in scena?
Quando sto per entrare in scena cerco di liberarmi da tutti quei pensieri che mi possono opprimere. Faccio il vuoto. Posso adottare varie tecniche, ma è comunque qualcosa che deve avvenire come per osmosi. Passare da un mondo all’altro come nella naturale successione delle cose.

Come si fa a consolidare la consapevolezza raggiunta ed a non tornare a farsi influenzare dalle cieche speranze?
Essendo consapevoli che può accadere di lasciarsi influenzare dalle cieche speranze, come dici tu. Però, allo stesso tempo, io continuerò a cercare le condizioni per trovare questa consapevolezza. E questo non può che rafforzare la mia direzione di uomo, oltre che di artista. Ma anche di artista: l’esperienza è fattiva nella mia memoria e una parte dei personaggi da me interpretati resta comunque in me.

Cos’è per Graziano Piazza il teatro?
Quando lavorai con Laura Adani, ero molto piccolo ma pronto ad apprendere tutto. Lei mi disse: “Lasciati andare, basta che riesci a riconoscere il profumo del palcoscenico”. Lei faceva un gran respiro col naso e ricordo che aveva gli occhi che le brillavano. Fu uno dei più grandi insegnamenti che ho ricevuto.

Come si entra in contatto vivo con il teatro?
Occorre essere attenti. Praticare l’attenzione. Sapere fino in fondo che siamo collegati, che c’è qualcosa che ti fa essere lì per una ragione che va al di là di te.

Poc’anzi, parlando di Laura Adani, hai accennato al profumo del palcoscenico. Come lo descriveresti tu?
Il profumo del palcoscenico è composto da... Te lo voglio dire con un aneddoto. Da piccolo, quando andavo sul palco del Carignano di Torino, chiudevo gli occhi e immaginavo: parole, gente che entrava e usciva, gli autori. Immaginavo questo luogo carico di tutto, anche di vita, e pensavo ai rapporti degli attori fra di loro. Ma tutto ciò accadeva nel silenzio, dentro di me. A quel punto ho iniziato a sentire l’odore di legna, qualcosa che aveva, ed ha, a che fare con un atto naturale che deve vibrare come l’ancia di uno strumento naturale, corde e vele unite che debbono andare lontano. È un profumo forte, fatto di sudori, forse anche di sperma, fatto di umori umani, lo stesso odore che un uomo ha in sé e che è quello della sua verità. Certo: ci confrontiamo con l’artificio, ogni tanto ci cadiamo. Molti di noi sanno che a volte non si riesce a superare questa barriera per tante ragioni. Ma il principio per fare questo mestiere è di volerlo davvero. In questo momento qua ancora di più. Per me questo artificio appartiene a quel pensiero circolare delle mente che ti fa andare lontano da te stesso e lì vivere autenticamente, come una fragranza.

Pierluigi Pietricola

Ultima modifica il Lunedì, 20 Giugno 2022 08:46

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