di Anton Čechov
traduzione di Thomas Brasch
regia di Christopher Rüping
con Ann Ayano, Maja Beckmann, Moses Leo, Benjamin Lillie, Wiebke Mollenhauer, Lena Schwarz, Steven Sowah
scene di Jonathan Mertz, costumi di Tutia Schaad
drammaturgia di Moritz Frischkorn
collaborazione drammaturgia di Lisa-Maria Liner
produzione, Schauspielhaus, Zurigo, Lac di Lugano,
Giornate del teatro svizzero, 23 maggio 2024
«Se in un racconto compare una pistola, bisogna che prima o poi spari». Parola di Anton Cechov. Eppure in Die Möwe (Il gabbiano) di Christopher Rüping la pistola cechoviana non spara, sta a terra, è utilizzata a turno dai personaggi per minacciare e urlare la propria rabbia, mentre un’enorme luna al neon fa di quei borghesi annoiati delle sagome in controluce, quella stessa luna evocata nel dramma delle nuove forme proposto da Kostja (Benjamin Lillie) alla madre Arkadina (Maja Beckmann), attrice famosa che schiaccia il figlio e le sue aspirazioni d’autore. Non c’è alcuno sparo fuori scena alla fine, ma una dolente e accecante fotografia di una borghesia annichilita dalle passioni mancate, dalla vita non vissuta. Nell’ambito delle Giornate del teatro svizzero il capolavoro dell’autore russo ha trovato un suo interessante taglio postdrammatico, banco di prova per un ensemble di attori che non si risparmiano e mostrano una forza espressiva che rende inattese, se non nuove, le parole cechoviane. Il regista Rüping e il drammaturgo Moritz Frischkorn non hanno paura di mettere mano al testo, non temono di fare inserti contemporanei, ma soprattutto non temono di approcciare le parole con una sfacciataggine che pian piano conquista, che fa sorridere e inquieta un poco. Una panca, uno smartphone con una cassa per le musiche e null’altro se non una compagnia di attori che mette in scena un testo che parla di teatro e un teatro che interroga la vita e i fallimenti di quei personaggi che fanno i conti con le loro delusioni e le loro nevrosi. Ma in questo Gabbiano iper-contemporaneo e astratto è l’aspetto metateatrale e metanarrativo che prende piede in un continuo e potente guardarsi da fuori e l’essere convinti di giocare il ruolo di soggetti da racconto breve. Dopo tutto è quanto Trigorin dice a Nina con davanti il gabbiano morto portatole da Kostja, che in questo caso lancia il volatile avvolto in una borsa di plastica della spesa: «Una giovane donna vive tutta la sua vita in riva a un lago. Lei ama il lago, come un gabbiano, ed è felice e libera, come un gabbiano. Ma per caso arriva un uomo, e quando la vede la distrugge, per pura noia. Come questo gabbiano». Non è un caso che Kostja urli il suo amore per Nina in una triplice ripetizione con colori emotivi differenti: rabbia, freddezza e passione. È come se ne Il gabbiano dello Schauspielhaus di Zurigo ci fosse la volontà di fare i conti con la rappresentazione in sé, col linguaggio. Questa volontà ha trovato il proprio luogo deputato nel testo cechoviano. Quella che può parere una lettura di una parte per il tutto, alla fine – in particolar modo nella seconda parte – trova una sua decisa intensità e una chiusura potente – lo srotolarsi dell’enorme luna al neon è un bel colpo di teatro - Oltre i già citati Beckmann e Lillie, Ann Ayano, Moses Leo, Wiebke Mollenhauer, Lena Schwarz, Steven Sowah mostrano una compattezza interpretativa e attoriale che sostiene l’intera operazione con momenti più o meno intensi. Questo Gabbiano è pur sempre un invito intelligente a considerare il teatro un’operazione che punta dritto al cuore del nostro presente. Nicola Arrigoni