su un progetto mai realizzato di Frank Zappa
di Giovanni Mancuso su libretto di Pilar Garcia
direttore: Marco Angius
adattamento, regia e drammaturgia: Pippo Delbono
Ensemble strumentale dell'OTLiS
Orchestra del Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto
Spoleto, Teatro Caio Melisso, 6, 8 e 9 settembre (prima esecuzione assoluta)
Per la «prima» di Obra maestra, opera dedicata a Frank Zappa, che ha aperto giovedi scorso la stagione del Lirico Sperimentale di Spoleto, sono volate scintille tra l' autore dell'opera, il compositore Giovanni Mancuso,e il regista Pippo Delbono.
Obra maestra ripropone il problema di come e quanto i creatori della messa in scena possano intervenire sul lavoro degli autori: uomo di teatro totale e incontrollabile, Delbono non era affatto convinto di Obra maestra, soprattutto del libretto -di Pilar Garcia-, e ha chiesto di fare profonde modifiche; logico broncio di Mancuso, la sua prima opera veniva rappresentata poiché premiata dal «Concorso Orpheus Fondazione Carispo», e lui si sarebbe legittimamente aspettato una messa in scena rispettosa della sua volontà. Comprensibile, anche se non obbligata, la scelta della direzione artistica del Lirico di estromettere il compositore dalle prove, per finalizzare - piuttosto che rinunciarvi - la prima, andata in scena col titolo Studio su Obra Maestra permettendo a Delbono profonde modifiche del testo e perfino aggiunte di brani di Zappa, ma imponendogli il rispetto della musica di Mancuso, eseguita pressoché nella sua interezza. Nervosismo alle stelle e, come a volte capita in casi simili, un risultato vivo.
Per ironia della sorte la vicenda dell'opera narrava a sua volta di un compositore FZ (Frank Zappa) che tenta di mettere in scena un suo lavoro, ostacolato prima dalla censura e poi dai musicisti che non lo capiscono: tutti impedimenti che FZ alla fine supera.
Una stilizzata variazione del genere buffo settecentesco sulle convenienze teatrali da cui è emersa una gagliarda dialettica interna: Delbono e Mancuso hanno di Zappa un'idea certo appassionata ma diversa,
e soprattutto una visione opposta del teatro. Nell' episodio della censura al linguaggio musicale con cui Mancuso fa gelidamente confrontare i benpensanti e il giudice, Delbono aggiunge un'accorta, sanguigna arringa a sirene spiegate. Con le sue irruzioni sceniche il regista spinge in avanti lo spettacolo mettendo in evidenza uno dei punti deboli di tanto teatro musicale contemporaneo che anche nell' affrontare temi caldi rischia sempre un manierismo di riferimento a precedenti, magari illustri, ma configurati con poca pressione scenica.
Non deve passare inosservato l'ottimo lavoro del direttore Marco Angius, che ha portato l'ensemble da camera del Lirico a una prova eccellente, al pari di quella di tutti gli interpreti, come i soprani Stefania Grasso e Tania Bussi, e il mezzosoprano Federica Carnevale e con particolare sicurezza il baritono Gabriele Ribis.
Ben accolto dal pubblico, non senza che due o tre contestatori onorassero Delbono, questo spettacolo mostra soprattutto come nella creazione di una nuova opera sia più importante il percorso verso la scena che non la «prima». Sarebbe un peccato che il «Concorso Orpheus » per nuove opere si arenasse a questa edizione, per il minacciato venir meno dei fondi privati che finora lo hanno sostenuto.
Luca Del Fra
SPOLETO- Delbono sta a Mancuso come Frank Zappa sta a Freak Out. In questa elementare proporzione è forse racchiusa la "formula matematica" di uno degli spettacoli d' opera più eccessivi, visionari, tumultuosi e irrisolti degli ultimi anni: Obra Maestra, il lavoro del compositore veneziano Giovanni Mancuso che ha vinto l' ultima edizione del " Concorso Orpheus " e che il Teatro Sperimentale di Spoleto ha messo in scena la scorsa settimana al Caio Melisso.
Fissando negli occhi Zappa Mancuso ha costruito un congegno musicale che " suona" come un perfetto meccanismo zappiano: da una parte un'orchestra che ibrida contrabbassi e frullatori, pianoforti e bambolotti, flauti e pistole giocattolo, dall'altra voci che intonano nonsense onomatopeici, grottesche caricature operistiche, suoni vitrei e irreali.
Ma compie perô, con la librettista Pilar Garcia, un errore poco zappiano: di mettere in scena, nella loro prevedibile e ordinata linearità, una serie di personaggi e addirittura il lacerto di una "storia ".
Ed è proprio contro il muro delle convenienze teatrali che ha sbattuto il naso Pippo Delbono. Il cui teatro, da sempre, è fatto di persone e non di personaggi, di oggetti e non di immagini, di parole e non di libretti.
Delbono ha preso Obra Maestra vi ha estirpato ogni residuo di narrazione e si è buttato dentro la scena con tutto il peso ingombrante della sua voce, del suo corpo e delle sue ossessioni. Rivelando così una " trama" scomoda e brutale: il teatro, se vuole vivere, non può che distruggersi. Da dentro.
Guido Barbieri
<Quella che vedrete fra due ore non è la mia opera. Fin dall' inizio delle prove il regista non mi aveva nascosto le sue perplessità sulla musica;ma questo non l' autorizzava a travisarla. Per me un'opera è come un figlio: può esser giudicata brutta, ma va eseguita com'è. Ho tutto il diritto di difendere il mio " scarrafone "! ».
Veneziano, 37 anni, Giovanni Mancuso ha vinto il concorso per opere da camera del Lirico Sperimentale di Spoleto con «Obra maestra» alla vita di Frank Zappa. Espone con freddezza le sue ragioni, senza scomporsi, inespressivo: proprio come Pippo Delbono (è lui il regista) giudica la sua musica quando la definisce «una partitura scritta con professionalità, ma bruttina e soprattutto incapace di suscitare emozioni».
Come prologo di una rappresentazione, è dei più singolari. Ricapitoliamo. L'opera si ispira alla vita di Frank Zappa (il protagonista è Z, un compositore che la vèrve corrosiva conduce a scontri violenti con istituzioni e moralismi sociali).
Ragione del contrasto tra compositore e regista è che Mancuso si ispira al personaggio Zappa assai più che alla sua musica: la partitura ha nel complesso i connotati di un'avanguardia datata. Al punto che Delbono per esaltare o ricuperare valori narrativi e drammaturgici della musica, realmente un po' carenti in Mancuso, non ha esitato ad interpolarvi brani integrali dello stesso Zappa e s'è appropriato del ruolo di recitante, in origine affidato al direttore d' orchestra, trasformandolo in un exploit
istrionesco tutto sopra le righe e tale da nascondere la musica di Mancuso. Impossibile a questo punto non parlare di «un'opera di Delbono». Scomparse anche le scene (di Cristiano Bacchi resisteva solo il nome in locandina), col palcoscenico occupato dall'orchestra i cui componenti diventano anche attori.
Sul podio era con grande dignità Marco Angius e bravi sono stati i cantanti (Stefània Grasso,Tania Bussi, Federi Carnevale e Gabriele Ribis) che hanno ben eseguito l'articolata vocalità dell'originale di Mancuso. Nel complesso favorevole l' accoglienza del pubblico, pur con contestazioni.
Virgilio Celletti
A Spoleto, un adattamento straordinario dell'"Obra maestra" di Giovanni Mancuso dedicata al grande musicista rock.
Ma la libertà del regista non piace al compositore che chiede disciplina. Ma l'arte non è rivoluzione?
Spoleto nostro servizio
Se Frank Zappa avesse partecipato a un concorso per suoi sosia, a Spoleto sarebbe arrivato terzo. Il giovane assessore comunale della cultura Giorgio Flamini e Giovanni Mancuso, compositore classe '70, lo ricordano molto. Nei lineamenti, nella barba da moschettiere, prima ancora che nelle parole, scritte e non.
Obra maestra , opera inaugurale della 61ma stagione del Teatro Lirico Sperimentale Belli di Spoleto, infatti, è dedicata a questo genio visionario e profetico, musicista e artista totale, punto di riferimento prima incompreso, ora mito. Un lavoro, un omaggio del giovane compositore Giovanni Mancuso, vincitore del concorso (che già aveva visto l'egida del compianto Berio e ora di Andriessen) "Orpheus/Fondazione Cassa di risparmio di Spoleto" per opere di Teatro Musicale da Camera. «Zappa è una mia passione personale - esordisce il compositore - che ho seguito costantemente e su cui mi sono documentato per anni». E' la storia impossibile di Z. (raccontata dal libretto di Pilar Garcia) compositore antiaccademico e anarchico che ha sviluppato una tecnica esecutiva e di scrittura d'avanguardia. Z, senza molta fantasia, è ovviamente un alter ego di zio Frank. «Vuole mettere in scena un'opera, contro ipocrisie e censure. E' stato un lavoro difficile: riversare la sperimentazione, e forse anche la mia vita di musicista, in una scrittura tradizionale. Ne è uscito un linguaggio complicato da mettere in scena, con strumenti e suoni inconsueti». Un progetto ambizioso, forse pretenzioso (come molta musica contemporanea), sicuramente interessante. Così al maestro Michelangelo Zurletti, direttore artistico, è venuta in mente l'idea più ovvia e al contempo più folle: chiamare Pippo Delbono a dirigerlo. Il più inadatto al mondo della lirica, per la sua rigorosa ricerca della rottura degli schemi narrativi, artistici, politici, ma anche uno dei più raffinati appassionati di Zappa. Idea geniale ed esplosiva, degna di un teatro che vuole rendere onore alla sua definizione di sperimentale. Ma piena di rischi. «La verità - conclude Mancuso - è che ho scritto un'opera sulla censura e sono stato censurato. Non ho potuto dire la mia, non ho neanche assistito alla prova generale. Ero disponibile a cambiare tutto, certo difendendo la mia opera come un figlio, ma pronto a ogni mutamento. Sono stato allontanato».
In questione c'è uno scontro, al terzo giorno di prove, tra Delbono e Mancuso stesso. «I nostri mondi, forse, sono troppo contrastanti, Zappa era uno disciplinato fino alla morte, amava dire: sii regolare e noioso fino alla morte, così sarai estremo e violento nell'arte. Ci sono regole e una disciplina da rispettare». Curiose affermazioni da parte di chi si definisce sperimentatore e fan di Zappa. Un uomo che dovrebbe apprezzare anarchia e autonomia artistica e interpretativa, e che invece sembra arroccarsi nella più conservatrice e borghese difesa della sua opera e soprattutto delle tradizioni. «Ho finito per diventare isterico, e non mi succede mai - commenta amaro Delbono - questa faccenda deve aver smosso in me qualcosa di profondo e doloroso. La musica di Mancuso è ostica, necessita di una concentrazione enorme ed è difficile darle delle immagini. Il libretto, poi, non mi piaceva proprio. Nel mio teatro ho abolito i personaggi da 25 anni e qui mi sono ritrovato una parabola settecentesca sulla crisi dell'artista. Io per fare Beckett ho aspettato Bobò, un microcefalo che è stato 46 anni in maniconio e che ora gira il mondo con me, è il protagonista di tutti i miei lavori. Questa è la commedia dell'arte, i personaggi nascono dalla vita, solo dopo è arrivata la borghesia intellettuale e culturale».
Il viso, spesso sorridente e irriverente, ha vene di irritazione e fastidio. Soffre questo mondo fuori dal tempo, legato a regole arcaiche e lontane dalla realtà, pieno di sovrastrutture. «Ho trovato un mondo rigido, tanto che mi ha commosso quando, con fatica, sono riuscito a coinvolgere davvero i musicisti. L'arte è un vortice, qui sembra tutto finto invece». Pippo non ha problemi né sensi di colpa (giustamente) nell'affermare di aver messo mano a musica e libretto. «La rivoluzione si fa col linguaggio, non si può fare arte senza che ti trapassi la vita. Io me la prendo tanto con il Papa e Veltroni, ma i loro stessi difetti ci sono nel nostro piccolo mondo». La platea, fatta di melomani, critici e compositori, soffre. Questo confronto avviene al Teatro Nuovo, ultimo capitolo di una lunga polemica. Ottimo viatico ad un interesse mediatico per un mondo spesso trascurato, si sperava forse in tarallucci e vino alla fine. Ma Delbono non è il tipo, per fortuna. «Non capisco chi ha detto che devono esserci certe regole - urla ad uno dei presenti che lo apostrofa con snobismo - dov'è scritto? Non me ne frega niente del bon ton dell'opera, questo è un mondo malato, che sta crollando, come tutta la cultura borghese. Cultura vuol dire aprire gli occhi sul mondo con spietata lucidità».
Ha ragione: la sera (l'altroieri, oggi e domani gli altri due spettacoli) al Caio Melisso, la prima mondiale di Obra Maestra , diretta da Delbono, è un piccolo capolavoro. Si vedono sul palco forbici, pinze, un frullatore come strumenti, il testo è visionario e feroce, Zappa si sente dentro, Delbono ne è quasi posseduto quando inneggia al «contestatore lucido contro l'America perbenista e borghese» - per poi nei monologhi finali citare i pregiudizi nostrani- o quando sbraita contro «i poliziotti del cervello», cercando costantemente «ragioni razionali per credere nell'assurdo». Da Zappa allo zapping, Delbono non si risparmia né risparmia niente e nessuno. Volge a suo favore, teatrante di razza, un commento malevolo di una signora ingioiellata, diventa maschera quando impone a una spettatrice di abbassare la videocamera, il tutto senza mai uscire dallo spettacolo. Alla fine riceve fischi (pochissimi) e applausi entusiasti con i compimenti, tra gli altri, di un monumento (persino del cinema, ricordate il geniale Calderon?) come il maestro Giorgio Pressburger. Critici e alcuni paludatissimi spettatori imbalsamati, invece, sono usciti insoddisfatti. Per fortuna.
Boris Sollazzo
Fino a che punto un regista può intervenire sul corpo di un'opera in musica? Dove finiscono i suoi diritti di «ri-creatore » e cominciano quelli inviolabili del compositore? La messa in scena per il Teatro Lirico Sperimentale di Obra Maestra di Giovanni Mancuso - titolo vincitore del concorso internazionale Orpheus-appassiona, più che per il risultato finale, per la gran sarabanda che ne ha accompagnato la gestazione. La vicenda, su libretto di Pilar Garcia, prende con libertà spunto dalla vita di Frank Zappa e racconta dell'accanimento con cui un gruppo di «benpensanti> tenta di impedire la realizzazione di un progetto del grande, ribelle poeta del rock.
Il regista e autore teatrale Pippo Delbono è un noto innamorato di Zappa e accetta la proposta spoletina di debuttare nella regia lirica. Legge il libretto e non gli place (lo trova fragilmente letterario); ascolta la musica e non gli piace ( non trova
la melodia). Iniziano le prove, fa fatica ad accettare gli orari di cantanti e musicisti, vorrebbe andarsene, viene invitato a rimanere, però avvisa: « Io so lavorare solo sui miei testi ». Inserisce un prologo, alcuni minuti di vera musica di Zappa, decide di fare anche l' attore e di interpretare lui il ruolo del rocker; crea due ampi monologhi-pezzi di bravura in cui, solo al centro del palco dopo aver allontanato orchestra e direttore, cita pensieri di Zappa e una lirica di Gregory Corso e fa emergere, anche grazie a un perfetto uso del microfono, una possente, magnetica animalità scenica.
Se ne va invece il compositore, anzi viene invitato a farlo, visto che l' incomunicabilità tra i due rischiava di mandare tutto all' aria. Si riesce ad andare in scena, Mancuso torna a Spoleto, ritira il premio del concorso vinto, subito dopo dice di essere stato « censurato, impedito di difendere questa mia creatura », non sale sul palco al termine dello spettacolo. Delbono ha davvero stravolto la musica e il libretto?
Sì, scrive Mancuso in un durissimo comunicato diffuso dopo la prima, elencando tutti i momenti in cui la partitura è stata manipolata o cancellata. No, ribatte il regista, convinto di aver reso rappresentabile una vicenda altrimenti smorticina.
La musica di Mancuso è informata, inventiva nell'impiego dei colori e degli effetti orchestrali, divertente nella scrittura vocale (il terzetto delle professoresse benpensanti, Stefania Grasso, Tania Bussi, Federica Carnevale) e nella grande aria buffa del Giudice (l'ottimo Gabriele Ribis), ma ha una levigatezza inadatta a raccontare il personaggio Zappa ed è poco dinamica: vive di episodi, soffre di un'esile muscolatura drammaturgica e di qualche estrosità gratuita.
Se si è arrivati in porto, gran merito va a Marco Angius, direttore dell'Ensemble del Teatro Lirico. Al preciso lavoro di concertazione, ha unito un'inaffondabile calma durante la tempesta. Delbono intanto ha annunciato di volere in futuro rimanere lontano dalla lirica.
Sandro Cappelletto
Rompe, irrompe, zappeggia, straripa, scalza e rimodella la partitura drammaturgica (originariamente di Pilar Garcia) stiamo parlando di Pippo Delbono inedito regista lirico e interprete teatrale di “ Obra Maestra”di Giovanni Mancuso, l’audace e vincente allestimento, in prima mondiale, che ha debuttato al Teatro Caio Melisso di Spoleto. Lungimiranti e innovativi, il direttore artistico del Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto Michelangelo Zurletti e il direttore generale Claudio Lepore, hanno decisamente centrato il bersaglio affidando la messa in scena dell’opera vincitrice della VII edizione del concorso “Orpheus” – Fondazione Cassa di Risparmio di Spoleto”, ad un artista tanto bravo quanto libero e indomito. Delbono fa “vedere” e “suonare” le parole, parte da Mancuso e crea un racconto nel racconto, quello musicale dell’opera contemporanea magistralmente diretta da Marco Angius ed eseguita dall’Ensamble strumentale dell’OTLiS e l’Orchestra del Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto, alle prese oltre che con gli strumenti, con frullatori, bambolotti, pistole giocattolo, forbici, pinze, e la sua personale scrittura dell’anima. Nel contesto onnivoro e mutante della scena c’è il potere e il perbenismo, gorgheggiato delle cantanti infagottate in abiti di broccato e mise da zitelle impettite e cotonate, il giudice baritono che scopre la giarrettiera, immagini hard, eros, elogio del pene, ma soprattutto c’è Pippo Delbono. Corpo e voce dal respiro affannoso e sensuale, le sue scorribande in scena sovrastano musica e vocalizzi, il suo ritmo è incessante, sofferto, sobillatore, frusciato, gridato, cantato, danzato. Non è finzione scenica è vita. Non è una classica esecuzione libretto e partitura, è teatro pulsante, vero, fulmineo. Protagonista senza travestirsi da personaggio, perso come noi e con noi nel labirinto delle contraddizioni umane, Pippo tatua le note con il gesto comunicativo dall’espressività immediata, reincarna il mito di Frank Zappa il “ “contestatore lucido contro l’America perbenista e borghese”, s’impone come cicatrice della coscienza collettiva, in una sfida ardua, allo specchio, trasformandosi in un doppio: da Frank a Pippo e ritorno, da Zappa secondo Delbono alla libertà di essere. Ansima, urla al megafono contro i poliziotti del cervello, corre, salta, dialoga e si scontra con il pubblico delle grandi occasioni, critici dai nomi altisonanti e dall’aria saccente, signore ammantate sontuosamente, spara a sirene spiegate, ride, ammicca, declama, cerca “ragioni razionali per credere nell’assurdo”. Turbolenta, strepitante, dalla musica “ostica”, spietata, bislacca, l’“Obra” e il suo straordinario mattatore, giunge al trionfo finale musicato Zappa, tra qualche fischio, di prassi per una prima lirica che si rispetti, e scroscianti applausi.
Francesca Motta
«Il pubblico è di stucco: assorbe il qui pro quo. Un’estorta aureola, sai, non basta perché un pubblico frigni o rida. Se un genio incontra il mondo va in tilt ma il cielo non stupisce. La terra è solo un volo, quali falene viviamo una notte. Il Carneval per noi chiude: dobbiamo far fagotto. Per scrittori e commedianti finisce qui tutto»: il librettista Gianluigi Melega scrive così verso la fine del Signor Goldoni, l’opera che il compositore Luca Mosca ha scritto per il Teatro La Fenice, che l’ha rappresentato dal 21 settembre; Melega e Mosca, scrivendo teatro musicale, tornano alle maschere dell’arte, e al loro effimero sognante, in una stagione che è davvero piena di novità, dal Teneke di Fabio Vacchi alla Scala dal 22 settembre al 4 ottobre (si racconta di un conflitto sociale), allo Zappa di Mancuso a Spoleto (Obra maestra allo Sperimentale “Belli” di Spoleto dal 6 settembre, premiata dalla giuria presieduta da Louis Andriessen), al Nicola Sani politico che a Reggio Emilia questo 10 ottobre riflette sull’omicidio del giudice anti-mafia Falcone (Il tempo sospeso del volo). Qua e là, in produzioni non certo dispendiose, siamo a un autunno quindi di straordinarie sorprese, che è stato squarciato dallo “scandaloso” conflitto che a Spoleto ha opposto il regista Pippo Delbono, grande talento della nuova scena teatrale “underground”, a Giovanni Mancuso, giovane compositore alla sua prima ribalta. Delbono si è preso l’opera di Mancuso, dedicata al genio censurato di Frank Zappa, e l’ha a suo modo censurata di ogni sopravvivente tipologia operistica perbenista e intimidatoria; considerando perbenista anche la serietà di una concezione colta e scritta del fare spettacolo musicale d’autore. Le prove si sono trasformate in isterico psicodramma (di cui Delbono è capacissimo abitatore, basta vedere uno dei suoi spettacoli farciti di dolore, di freaks, e di lancinante follia drammatica), e i poveri esponenti del mondo dell’opera si sono visti precipitare nei gironi infernali del vero teatro, ovvero di qualcosa che esce lacerato dalla coscienza creativa di un attore-autore-regista quale Delbono (pensate a Carmelo Bene regista di una novità di Luigi Nono!): Mancuso si è dissociato in ogni modo dal massacro del suo originale, ma chi ama l’opera di Zappa ha ritrovato nella veste finale dello show l’autentico spirito provocatorio e free del genio dei Mothers of Invention: il terzetto grottesco delle perbeniste americane è stato perfettamente efficace, e alla fine dal fuoco di quella distruzione shivaita è emersa la costruzione di qualcosa di inedito e ineccepibilmente vivo di energia. Questo ha percepito Claudio Lepore, direttore generale dello Sperimentale di Spoleto, nel suo appello finale a Delbono e Mancuso affinché si possa dare altra storia scenica a questo spettacolo, dopo le recite umbre (il suo intervento completo lo potete leggere sul nostro sito www.giornaledellamusica.it, sezione Lettere aperte): «Né buoni né cattivi. Si è fatto teatro e, se qualcuno la guardasse con occhio più lungimirante, forse Obra maestra (relegata come opera contemporanea a non più di 3-5 rappresentazioni) potrebbe volare ed essere messa in scena per almeno cento altre volte». Il pubblico assorbe il qui pro quo, si cantava alla Fenice: qualcuno vuol fargli vedere in qualche altro teatro un po’ di invenzione?
Daniele Martino
Pippo Delbono porta a Spoleto la sua «Obra maestra», immedesimandosi nello sperimentalismo provocatorio di Frank Zappa e combattendo contro l'arroganza del potere, con l'aiuto della musica del giovane compositore veneziano Giovanni Mancuso
Spoleto
Uno «scandalo», fertile e grandioso, come magari a Spoleto usava al Festival dei due mondi dei tempi d'oro. Costruito, scavato e dedicato dentro una scandalosa icona della cultura pop degli ultimi decenni, Frank Zappa. Il cui fantasma, riprendendo corpo e suono dentro lo spazio augusto del Caio Melisso, lancia una provocazione forte contro il conformismo che circonda, e talvolta «barrica», non solo il mondo della musica operistica, ma anche quell'area che più dovrebbe essere pronta alle spericolatezze della ricerca.
Tutta questa carica di «scandalismo» sta dentro un'opera nuova, appena presentata nello spazio spoletino dalla 61° edizione di quella che non a caso si chiama Stagione Lirica Sperimentale. Il titolo è Obra maestra, composta da Giovanni Mancuso, mentre il libretto originale era firmato da Pilar Garcia. L'opera ha vinto il concorso Orpheus della Fondazione di Spoleto, e l'andata in scena è stata affidata a Pippo Delbono, artista teatrale che da sempre porta nel suo lavoro il segno della danza e della musica. E che ha una devozione particolare, quasi «biografica», per Zappa, le cui musiche spesso echeggiano nei suoi spettacoli, e che da una sua canzone ha tratto il titolo di uno degli ultimi lavori, Gente di plastica.
Per Delbono è scattata nei confronti dell'opera, e del suo genio ispiratore, una sorta di immedesimazione totale, fino a trasformare il tutto in una rappresentazione in larga parte propria, tanto che riempie la scena della sua presenza nel ruolo che evoca appunto Zappa. Questo sarebbe stato destinato dalla partitura al direttore d'orchestra, ma pare che il bravo Marco Angius si fosse rifiutato di ricoprirlo (mentre i musicisti pare fossero riluttanti a scoprirsi a mezzo busto, come avrebbe voluto la regia). Una ricca messe di particolari e di aneddoti di questo tipo rimangono solitamente dietro le quinte della preparazione di un lavoro teatrale. Se qui hanno avuto risonanza e sollevato tanti «brividi», è perché questi discorsi investono ancora in profondità il fare spettacolo. A dispetto di un secolo di tante avanguardie, i territori della creazione artistica sembrano circoscritti e conflittuali tra loro, tanto che non ci si può stupire poi se le signore habitué dell'opera (come ammette spiritosamente Silvana Pampanini, abbonata doc) al debutto di un'opera nuova portano già da casa il fischietto nella borsetta...
Ma per uno spettatore che serenamente si fosse recato al Caio Melisso l'altra sera, l'emozione non è mancata. Davanti a un'opera ruvida quanto provocatoria dell'intelligenza. Il personaggio Zappa è da subito protagonista, nel racconto in controluce di Delbono. Il musicista nemico di ogni establishment, ma assai attento a non rinchiudersi nella felicità della propria protesta. Da quando si fece conoscere come leader dei Mother of invention, fino alla maturità che lo aveva eletto guru di più di una generazione.
Ci sono squarci illuminanti, tra i musicisti disposti in palcoscenico, di quanto energica fu la rottura di ogni schema da parte di Zappa: quelli musicali certo e innanzitutto, ma anche quelli della bigotta morale occidentale (c'è una irresistibile e dettagliata ermeneutica del pene) e della «lucidità» pensante che avrebbe voluto governare e indirizzare un universo totalmente piccoloborghese. Arroganze di poteri che sulla scena vivono con il conformismo urlato di tre megere yankee, pettorute e cotonate; o con quel polveroso giudice che quando si asside in tribunale scopre sotto il parruccone una giarrettiera.
Ci sono testi (rielaborati e assunti dallo stesso Delbono) assai poetici e frementi, capaci di situare nuovamente Zappa nella memoria di ciascuno. Nella insofferenza di ciascuno per quei valori e quelle forme (i costumi sono di Francesco Morabito) che sembravano destinati a una rapida sconfitta, e che invece pericolosamente tornano (se mai si erano assopiti) e gravano nella vita di tutti. Questa Obra maestra ne è un affascinante e implacabile campanello di allarme.
Gianfranco Capitta