di Luigi Dallapiccola
Il castello del duca Barbablù
di Béla Bartók, direttore: Daniel Harding
regia: Peter Stein, scene: Ferdinand Wögerbauer e Gianni Dessì, costumi: Anne Marie Heinreich, luci: Japhy Weideman
con Paoletta Marrocu, Vito Priante, Kim Begley, Gregory Bonfatti, Davide Pelissero, Eörs Kisfaludy, Gabor Bretz, Elena Zhidkova
Milano, Teatro alla Scala, dal 18 al 30 maggio 2008
La ribalta, e fragorosi tributi di applausi, se la prende il soprano russo Elena Zhidkova, Judit nel Castello del duca Barbablù di Béla Bartók. Più che meritati onori anche al partner Gabor Bretz (un giovane baritono, dopo decenni di dominio nel ruolo del mitico László Polgár) e naturalmente a Daniel Harding e Peter Stein, primi artefici di uno spettacolo superbo, degno del blasone Scala. Ma è di lei che si sente parlare nel foyer. Quanto è brava, Quanto è bella. Giovane assai eppure sta in scena da veterana. Come niente fosse, resta nuda, il seno appena coperto da bionde ciocche di capelli, mentre Barbablù la spoglia dell' abito da sposa e la veste della tunica blu che la trasforma nell' ultima delle mogli segregate nella remota stanza del castello. L' opera di Bartók, uno dei capolavori assoluti del secolo scorso, torna alla Scala in forma scenica dopo oltre 25 anni d' esilio. L' idea che faccia serata con Il prigioniero di Luigi Dallapiccola è di quelle che fan stupire che nessuno ci abbia pensato prima: gli atti di nascita sono ad oltre 30 anni di distanza l' un l' altro ma v' è una serie di analogie che non si esaurisce nella centralità del tema della segregazione. È insomma bellissima idea. Il difetto è che Il prigioniero ne esce fatalmente ridimensionato. Gode di partitura solida, robusta, di cui l' atto unico bartókiano rivela però i tratti di fragilità. Daniel Harding è uscito da un pezzo dalla crisi inevitabile del dopo quegli esordi scoppiettanti. È maturato tanto. L' opera di Dallapiccola la rende dilavata dei turgori post-romantici e «barricaderi». Ne fa saggio di un lirismo malioso, veramente alla Webern, trovando in Vito Priante, Paoletta Marrocu e Kim Begley interpreti perfettamente registrati su tale lunghezza d' onda. L' orchestra va a nozze, ove si tratti di lirismo, pur non risparmiando la plasticità figurativa che occorre nel Barbablù. La prossimità - va da sé - aiuta a marcare differenze di stile, linguaggio, densità polifonica, articolazioni ritmiche. Ma anche prese da sole, sono due esecuzioni sontuose, bellissime. Peter Stein si appoggia a due scenografi diversi (Ferdinand Wögerbauer per Dallapiccola, Gianni Dessì per Bartók) ma in ambo i casi fa muovere i personaggi dentro spazi vasti e opprimenti: pannelli rotanti, pareti, muri altissimi, porte strette. È spettacolo rigoroso, il suo. Di quelli per cui non ha senso parlare di astratto o figurativo. La concretezza dell' azione passa attraverso una recitazione curata parola per parola, gesto per gesto. Spettacolare la pira dove è condannato il prigioniero. Bellissima, da condividere l' idea che Barbablù non sia visto come sanguinario, né come misogino, né come impotente o omosessuale (tali le ipotesi sul suo conto) ma come il disilluso che invano ha cercato la donna capace di non occupare anche l' ultimo millimetro dello spazio della propria intimità.
Enrico Girardi
Divampa in palcoscenico alla Scala un fuoco rosso abbagliante, più rosso non si può. E non si può più fuoco di così. Sta alla fine dell'opera Il prigioniero di Dallapiccola, e vi arde un poveretto che da quaranta minuti, presagendolo, si lamentava o, illuso da certi segni crudelmente disposti, tremava di speranza. Prima un enorme ritratto di Filippo II di Spagna, incubo della disperata madre del prigioniero, si era trasformato a vista nel ritratto d'un gufo, in cella si era rotolato il poveretto e fuori s'eran dipanati cortei, nello spazio predisposto dallo scenografo Wögerbauer. La musica testimoniava la profonda coscienza di Luigi Dallapiccola compositore e librettista, che dimostra a quale tensione espressiva lacerante può portare la combinazione delle note nella serie dodecafonica; ma anche con quale immobilità. L'opera nel 1950 assumeva una sacra carica laica d'amore per la libertà, e adesso la studiamo come un importante reperto d'un secolo lontano.
Anche Il castello del Duca Barbablu è lontano. Anche qui un dopoguerra, siamo nel 1918, e un'angoscia programmata. Judit, che ama Barbablu, lo raggiunge nel suo castello, e il castello buio piange lacrime e sangue, e ha sette porte serrate. Judit le vuole aprire, e vedrà armi e strumenti di tortura, gioielli e un lago immobile, e alla fine dovrà unirsi alle donne precedenti amate dal misterioso amante. La partitura del grande Bartók fa tutto per rendere le immagini suoni, con ricchezza di timbri e guizzi e brontolii, come una stupefacente colonna sonora. La regìa di Peter Stein muove pareti e porte di geometrica astrattezza e vividi colori: splendidi i costumi di Anna Maria Heinrich. Tutto è dosatamente arcaico, fiabesco e psicanalitico.
Si va alla Scala per delirare di passione e anche per imparare con pazienza. In questi casi, si gode quello in cui ci si può riconoscere, e si applaude con grande compiacimento culturale. Nessun rischio per i cantanti, accolti bene, in Dallapiccola Paoletta Marrocu eloquentissima, Kim Begley autorevole, e il protagonista Vito Priante, espressivo ma un po' a botti e tremolii; in Bartók la fascinosa Elena Zhidkova e il normale, civile Edors Krisfaludy, con l'attore Gabor Bretz. Daniel Harding li ha diretti un po' fermo nelle parti lente, ma con autorità. Una serata di nobili cupezze, mah.
Lorenzo Arruga