di Manlio Santarelli
regia: Nello Mascia
con Nello Mascia, Alvia Reale, Fernando Pannullo
Benevento, Teatro Massimo, 5 settembre 2007
La commedia di Manlio Santanelli "Un eccesso di zelo" è stata proposta in anteprima nazionale al Teatro Massimo per la 28esima edizione di Benevento Città Spettacolo. Il testo, profondo e paradossale, è stato egregiamente interpretato da Alvia Reale, da Fernando Pannullo e da Nello Mascia, che oltre a fare da protagonista ne è stato anche attento regista. Il lavoro prende l'avvio da un tranquillo quadretto familiare. E' mattina, Aurora (Alvia Reale) ha appena messo i due figlioli sul bus della scuola, e suo marito Ivio (Nello Mascia) si sta preparando per recarsi al lavoro. La giornata, dunque, sembra voler correre sui binari della più rassicurante quotidianità. Ben presto la donna manifesta le tipiche inquietudini di una personalità disturbata, mentre l'uomo, dal canto suo, dimostra di avere con la professione che esercita - è oboista nella locale orchestra sinfonica - un rapporto tutt'altro che esaltante. Ad aggravare la situazione della coppia, enfatizzandone le dinamiche aggressive, sopraggiunge il padre di Aurora. Vedovo, pensionato. Quale malato immaginario, il signor Demetrio (Fernando Pannullo) appartiene a quella categoria di lamentosi, che non smettono un istante di piangersi addosso, e questo non tanto per l'obbiettivo squallore della loro esistenza, quanto per il sottile piacere di scatenare nei propri consanguinei devastanti sensi di colpa. Va osservato che nel primo atto la pièce sale di ritmo particolarmente verso la conclusione allorquando cioè la moglie, in un attacco di ansia da solitudine, cerca di impedire al marito di andare "per una volta" al lavoro. O almeno di portarla con lui. Non riuscendovi, inventa di avere una relazione con uno scrittore, di cui è collaboratrice. La discussione che ne nasce degenera e il marito va via dicendo: "Facciamo finta che tu non hai parlato. Stasera mi ripeterai tutto e io deciderò se crederlo, se crederlo in parte o per niente", ma dimentica le chiavi e gliele chiede al citofono. Nel buttargliele, la moglie depressa si lancia nel vuoto anche lei quale gesto colpevolizzante nei riguardi del coniuge. Alla riapertura del sipario la donna non è morta, nel precipitare s'è abbattuta sul marito, rimanendo illesa. Lui invece si è ridotto su una sedia a rotelle ed è accudito dal suocero, che appare quanto mai rifiorito dopo "l'incidente". Altrettanto rinvigorita è la moglie, che per di più è diventata una scrittrice di successo con il suo libro dall'improbabile titolo "Formiche con le ali". I ruoli insomma si sono completamente invertiti. Ora é il marito che, inacidito dall'inabilità, dopo vari sviluppi, chiede alla moglie di non lasciarlo solo. Questi tre campioni dell'umano malessere, partiti da una dimensione pressoché normale alla ricerca di un equilibrio più rispettoso delle loro singole esigenze, finiranno per trovare il proprio equilibrio in una soluzione paradossale, che li condannerà ad una comune anormalità. Nel teatro di Santanelli c'é sempre una forte presenza femminile: la donna santanelliana è possessiva e pronta a fagocitare il suo compagno. Donne maniacali, soffocanti, circondate da uomini fragili, incapaci di opporsi a questa dominazione e al tempo stesso sadicamente dipendenti da essa. Queste figure femminili apparentemente mostruose, da un punto di vista teatrale consentono alle interpreti di prendere comunque "una rivincita, mediante la ricchezza della costruzione del personaggio" così come avviene per Alvia Reale che dà al suo personaggio un'ottima interpretazione. Secondo Santanelli il problema principale che caratterizza le sue donne è il non riuscire a capire perché gli uomini vogliano essere autonomi e si pongono sempre al centro dell'universo maschile, cercando d'invaderlo con la loro presenza. Dal canto loro emergono altresì madri fredde, nevrotiche, distanti, che mal si conciliano con l'archetipo tipicamente italiano della mamma prodiga di affetti e di coccole, pronta ad immolarsi per il bene dei figli.
Renato Ribaud
Come sappiamo, è il rito (ovvero l’abitudine che prende il posto della vita) ad occupare lo spazio centrale fra i temi del teatro di Santanelli. E ne fornisce l’ennesima prova «Un eccesso di zelo», una commedia rimasta troppo a lungo irrappresentata e che adesso è arrivata finalmente in scena, grazie all’allestimento del Conservatorio d’Arte Drammatica dato in «prima» nazionale, al Massimo, nell’ambito di «Benevento Città Spettacolo». Qui, annunciato da segni e segnali tanto minimi quanto decisivi (lui che immancabilmente guarda il barometro prima di uscire e suona da anni e anni le stesse «divine armonie», lei che non ha mancato un solo giorno nel fargli trovare la camicia pulita al posto suo), il rito - sul filo dell’iperbole paradossale - giunge al punto di moltiplicarsi in una dimensione speculare che tocca, insieme, il comico e il tragico, la pietà e la crudeltà. Infatti, siamo di fronte a due coniugi - Ivio, oboista nella locale orchestra sinfonica, e Aurora, casalinga nevrotica e disadattata - i quali, nel passaggio dal primo al secondo tempo, si scambiano i ruoli: lui, che era l’elemento attivo, finisce addirittura su una sedia a rotelle, mentre lei, che era l’elemento passivo, si trasforma nientemeno che in una scrittrice di successo. Senza contare che il padre di Aurora, Demetrio, manifesta sul finale pulsioni omosessuali e che, in ultimo, si ritrovano tutti e tre immobilizzati, su sedie a rotelle modello «Via col vento». Insomma, «Un eccesso di zelo» è un gran bel testo: pieno di colpi di scena che però finiscono a rivelarsi come trabocchetti e di slanci cabarettistici che però finiscono a inscriversi in una trama di battute cadenzate dal basso continuo del grigiore insignificante ch’è la sigla del nostro tempo e del nostro mondo attossicati. E molto intelligentemente, allora, la regia di Nello Mascia mescola - sul piano della sottolineatura per contrasto - smarrite tenerezze e inani scoppi di furore. Per esempio, il salto nel vuoto di Aurora, che tenta di suicidarsi ma finisce addosso a Ivio (perciò lui rimarrà paralizzato!), s’accompagna a un volo di cicogne e alla musica di Benedetto Marcello. Di rilievo assoluto, infine, la prova degli interpreti, una delle più convincenti che mi sia capitato di vedere negli ultimi anni: Nello Mascia (Ivio) realizza, mediante la cifra espressiva del grottesco, che è da sempre la sua arma migliore, una perfetta simbiosi fra inventiva e rigore stilistico, mentre Alvia Reale (Aurora) è un vero concentrato di classe e tecnica da manuale. Ed eccellente risulta pure Fernando Pannullo nel ruolo di Demetrio. Voglio aggiungere solo che questo spettacolo è un atto di giustizia, a favore del teatro e contro la televisione spacciata per teatro.
Enrico Fiore