scritto e diretto da Tino Caspanello
con Tino Calabrò e Cinzia Muscolino
scene e costumi Cinzia Muscolino
disegno luci Tino Caspanello
produzione Statale 114, Compagnia dell’Arpa, Teatro Pubblico Incanto
distribuzione Latitudini
Prima nazionale 1 dicembre 2023 Teatro Dei 3 Mestieri - Messina
L’universo poetico di Tino Caspanello, declinato nelle molteplici forme narrative cui si consegna la sua anima, è vastissimo. Ora ha il respiro ampio di un romanzo, ora il tratto coriaceo di una pennellata su tela, ora la delicatezza delle sue regie, così misurate, così esatte. Giusi Arimatea
Il teatro, tuttavia, attraversa ogni espressione artistica. Lo si sente proprio pulsare dietro quell’ordito dell’esistenza che Tino Caspanello districa per il tramite dell’autenticità, della grazia, della nitidezza. Ove poi il teatro si affaccia, nella sua drammaturgia ovviamente, lì la parola si assetta sulla scena, acquisisce vigore, risuona dei suoi precisi tempi, dissigilla la complessità del mondo e delle anime che lo abitano, senza la pretesa di fornire soluzioni, tutt’al più di ispirare domande, di accarezzare i cuori con l’incanto congegnato sulla scena.
Non siamo qui, in prima nazionale l’uno dicembre al teatro Dei 3 Mestieri di Messina, è pertanto l’effetto delle profonde riflessioni dell’autore sulla realtà che è stata confezionata ad arte per instillare nell’uomo l’ultimo, nonché unico, anelito di salvezza: la fuga.
I due protagonisti, interpretati da Cinzia Muscolino e Tino Calabrò, si assestano sul piano inconsistente e labile della finzione. Dall’abbigliamento eccentrico e dalle altrettanto balzane modalità comunicative, Merilìn con l’accento sulla seconda i e il Signor Pippo possiedono i requisiti opportuni per sorvolare la realtà e all’occorrenza librarsi in volo verso un altrove tanto vago quanto fascinoso.
E qui si mescolano vita e teatro. Qui si intravede l’orizzonte metafisico dell’arte al quale ha abdicato un’esistenza esageratamente ancorata alla materialità.
Merilìn e il Signor Pippo incarnano dunque il sogno, la speranza, la poesia. Li vedi dentro ai loro abiti stravaganti e pensi che siano matti. Quando però azzardano un elenco di ciò da cui intendono fuggire allora ritrovi in loro tutta quanta la saggezza perduta dal folle mondo che abitiamo.
Non sai più, insomma, quale sia la finzione. Non sai chi o che cosa possa trattenere ciascuno di noi da un pellegrinaggio infinito oltre il filo spinato delle nostre coercizioni, delle nostre pene, delle nostre abitudini, delle nostre incomprese vocazioni, del sogno dentro al quale fingiamo di vivere.
Di Cinzia Muscolino e Tino Calabrò, entrambi accortamente in bilico tra passionalità e teatralità, si rimarca non solo la qualità attoriale, ma pure una sintonia che è frutto dei trent’anni della compagnia Pubblico Incanto alla quale appartengono insieme a Tino Caspanello.
La regia dello stesso autore prevede un ritmo incalzante intervallato da dolci frenate. Non siamo qui è una giostra emotiva che mette in campo tutte le gradazioni dell’essere umano colto nell’istante in cui si appresta a fuggire. A fuggire e a ricominciare. Pur custodendo, per certi versi preservando, quel porto sicuro che ci si lascia alle spalle e che è la propria dimora.
E su questa giostra che tutto scombussola e tutto rimette in discussione, salgono due attori straordinari, sale la musica, salgono le parole, salgono gli sguardi, i sorrisi, i silenzi. Sale lo spettatore. A riprova di come il teatro possa ancora costituire l’ultimo avamposto dell’astrazione, così seducente, così necessaria.
Intuiamo la verità delle due anime in fuga leggendo tra le righe dei loro dialoghi: un paio di rimandi appena all’esistenza reale e già ne comprendiamo l’onerosità. Allora diventiamo noi Merilìn, noi il Signor Pippo. Noi coi nostri desideri appesi al chiodo, coi nostri maldestri tentativi di adattamento alle cose, con l’interdizione al contempo della realtà e della finzione, a forza traslocati dentro una bolla di niente, intimoriti da piogge di bombe e istintivamente desiderosi della fine.
I rumori a ricalcare sparatutto, noi i bersagli.
Ma il teatro di Tino Caspanello conserva pur sempre una porzione di cielo sotto al quale rifugiarsi. Quello è il non luogo dell’incontro, della comunicazione, delle mani che si sfiorano e degli occhi che guardano nella medesima direzione. Il non luogo che non contempla segreti.
Lo spettacolo, d’impronta surrealista nell’accezione di Breton, mette in scena gli automatismi psichici puri degli individui che si sottraggono alla materialità del mondo. Il teatro ne costituisce lo strumento precipuo di sottrazione al finito. È per questo che la prospettiva di una vita, e perché no di una morte, su un vagone diventa più confortevole della docile resa alla ceralacca sulla bocca, alla colla sotto le scarpe, alla quotidianità del pane raffermo, alle parole a mezz’asta e a quell’elenco infinito che non ravvisa più il senso della vita stessa, irreparabile agli occhi di Merilìn.
L’uomo è oppresso dall’omologazione del sistema, privato della facoltà di immaginazione, boicottato all’atto d’essere sé stesso, impigliato nelle maglie di un vocabolario freudiano che assegna definizioni esatte a ogni tenue sfumatura dell’animo umano. Ed è a lui che l’autore bisbiglia, senza alcuna pretesa di possedere verità, un eventuale sentiero da percorrere. Non fosse altro che per respirare, per ridiventare, dopo la decostruzione, intero.
C’è quindi dentro a un solo spettacolo una visione del mondo complessa, accurata, cartesiana che scosta il velo a una moltitudine di questioni innanzi alle quali sovente tendiamo a distogliere il nostro sguardo. A ben guardare, scorrono come in sovraimpressione i titoli di coda dell’esistenza in bianco e nero di due individui sconosciuti e quelli di testa del film a colori di Merilìn e del Signor Pippo. E la magia sta proprio nell’accavallamento dei piani, nella coincidenza dei protagonisti sospesi tra il passato e il presente, arenati sulla riva della transitorietà eppure protesi verso quel territorio senza confini ed eterno che ancora concepisce il sogno, protegge la fantasia.
Per far ciò occorrevano parole esatte, silenzi esatti. Occorreva sentire battere i cuori dei protagonisti, discernere nei loro occhi i lampi impazienti e provvidenziali dell’immaginazione. Occorreva che Merilìn e il Signor Pippo, dei quali i due attori hanno saputo egregiamente riprodurre ogni venatura riposta altrettanto abilmente nella scrittura, sfoggiassero una maniera “altra” di sobbarcarsi la vita. Una maniera “altra” che inglobasse tutto, dal divertissement alla malinconia, e che però tutto fosse disposta a liberare. Nel chiaro e intellettualmente onesto intento di regalare ali nuove da indossare e farlo nel luogo deputato alla finzione ove, però, paradossalmente sa scorrere ancora, e a fiumi, la vita.