con Massimo Popolizio
testi: Roberto Mussapi
musiche: Uri Caine
Roma, Auditorium, 5 giugno 2007
«The Othello Syndrome» di Uri Caine è un insolito faccia a faccia lirico-teatrale, ispirato all' omonima tragedia di Shakespeare, e che ha concluso la rassegna «Carta bianca» indetta dalla Fondazione Musica per Roma. Ma no a parte la comune radice della trama shakespeariana, lo spettacolo non si richiamava affatto all' omonimo dramma lirico in quattro atti di Verdi; infatti Verdi ha messo in musica i personaggi quali erano nel teatro cinquecentesco del grande William - gli uni crudeli, gli altri innocenti - mentre Caine ha legato il testo-pretesto (originale), alla doppiezza di una sola figura padrona del palco, l' attore Popolizio un p0' Jekyll e un pò Hyde, un po' Jago, e un po' Desdemona insomma un moderno Otello alla Freud, presentato come in una crudele messa-a-nudo psicoanalitica. Lo spettacolo si componeva quindi di una serie di confronti di eguale misura e importanza: dieci minuti circa di recitazione alternati e contrapposti a dieci di musica, a tratti mescolati nei generi, realizzati appunto da Caine al pianoforte, Jim Black batteria e percussioni, John Hebert contrabbasso, Chris Speed clarinetto, Bunny Sigler (tutto di rosa vestito) e Josephine Lindstrand, voci Lui assatanato, lei mugolante. Tutto ciò sapeva di predestinazione. Aveva il piglio dell' ineluttabilità. La recitazione di Popolizio era esasperata e coinvolgente come quella di un uomo farneticante sul lettino dell' analista. La musica non era «nuova» bensì eloquente; insomma persuasiva. Se Caine non avesse trasformato il palco nel lettino-confessionale dell' analista, mi sarei lamentata dell' ovvietà dell' assunto musicale Però l' aggancio psicologico ha poi assunto il significato di una promessa - o una premessa - Quo vadis signor Caine? URI CAINE al Parco della Musica. Spettacolo unico
Mya Tannenbaum
Quattro anni fa, nell' incontro tra Uri Caine e Marco Paolini, era il primo ad accompagnare il secondo: con la sua energia, che procede a strappi, in modo convulso e quasi arrogante, l' americano sospingeva l' italiano. Ma Paolini faceva tutto da solo. Ne «La sindrome di Otello», in scena alla sala Sinopoli dell' Auditorium, il narratore è strutturalmente più debole, è sdoppiato: Roberto Mussapi ha scritto e Massimo Popolizio legge, o declama. Nella coppia, musica-parola, dominante è la musica. Il testo la asseconda, è quella ma, chissà, potrebbe essere un' altra. Come dice lo stesso titolo, in questione non è Otello, ma la sua sindrome. Con una certa abilità, Mussapi riassume il racconto di Shakespeare. Lo riassume in forma critico-discorsiva con, in scena, due protagonisti, o tre. Il terzo, Desdemona, è la pietra di paragone. Otello e Jago sono, lo dice lo stesso autore, una coppia sul tipo Jekyll-Hyde. Si affrontano ad armi pari, riflettono l' uno sull' altro (si descrivono a vicenda), con docilità sorprendente cedono la parola, in modo inavvertito se la riprendono, si sostengono fino a indurre sospetto: chi è Otello? E chi è Jago? Questi due sintomi di una medesima sindrome acquistano risonanza e quasi clamore nella voce dei cantanti, Bunny Singler e Josefine Lindstrand, che al pari loro sembrano, ciascuno, cedere il passo all' altro; ma che, strano a dirsi, sono tra loro in evidente conflitto. Quali siano le aspettative di Uri Caine per questo suo work in progress non è chiaro (non è chiaro a me). Posso però dire che Popolizio non è in nulla dissimile dal Popolizio che avevamo visto qui all' Auditorium un mese fa: non tanto per l' elegante e quasi settecentesca camicia bianca, quanto per la sua furia, per la sua convinzione che si debba essere sempre espressivi, super-espressivi, a tutti i costi potenti, possenti anche nella remissione, nella debolezza, nell' abbandono. «LA SINDROME DI OTELLO» di Roberto Mussapi, voce Massimo Popolizio, musiche Uri Caine.
Franco Cordelli