di Andrea Camilleri
Adattamento teatrale, regia e scene di Giuseppe Dipasquale
Interpreti: Tuccio Musumeci, Debora Bernardi, Daniele Bruno, Cosimo Coltraro, Lucia Fossi,
Anita Indigeno, Claudio Musumeci, Ramona Polizzi, Vittoria Scuderi, Vincenzo Volo, Santo Fragalà, Ugo Valle
Musiche: Matteo Musumeci
Movimenti coreografici: Giorgia Torrisi
Costumi: Dora Argento
Aiuto regia: Salvo Orlando. Luci: Antonio Licciardello
Foto di scena: Dino Stornello
Produzione: Teatro della Città Centro di Produzione Teatrale, Catania
Teatro Brancati dal 13 al 23 aprile 2023
Per motivi anagrafici ho conosciuto visivamente i casini (chiusi dalla legge Merlin il 20 febbraio 1958) attraverso i film di Fellini (Roma) e Lina Wertmuller (Pasqualino Settebellezze). Per il resto me ne parlava, per mia curiosità, un lavorante del negozio di fiori di mia madre, tale Angelo che poi si trasferì a Milano, facendomi entrare in questi luoghi pruriginosi, dai nomi più strani, di cui ricordo solo quello che si chiamava La chiave d’oro. Anche il regista Giuseppe Dipasquale, per i miei stessi motivi, non ha conosciuto questi lupanari, ma come avvenuto per alcune opere di Camilleri, (Il birraio di Preston, La concessione del telefono e altre), questa volta (Dipasquale) ha scelto di mettere in scena La pensione Eva che era una casa chiusa realmente esistente durante gli anni giovanili dello scrittore di Porto Empedocle diventata poi la sua Vigata. Certamente Dipasquale avrà visto i film riferiti all’inizio, ha letto il romanzo Memoria delle mie puttane tristi di Gabriel Garcia Marquez e adattando il romanzo di Camilleri ha ri-creato la sua pensione Eva, composta scenograficamente da uno stanzone con tavoli e sedie, due dipinti, bruttini, sulle pareti laterali raffiguranti delle ballerine impressioniste alla maniera di Toulouse-Lautrec e/o Degas, un (finto) piano bianco, un bancone con tariffario e dietro, nascoste da velatini rossi, un paio di camerette, che illuminate opportunamente svelano una dormeuse d’antan sopra la quale si consumano i momenti del piacere. Al centro del plot c’è il Nenè di Daniele Bruno che incarna lo stesso Camilleri, quando da ragazzo si chiede perché le finestre di quello stabile siano chiuse e si vivacizzino solo quando si fa sera. Lo capirà più grandetto quando si recherà in quel postribolo chiuso il lunedì, per riposo settimanale, assieme agli amici Jacolino e Ciccio (Claudio Musumeci e Vincenzo Volo entrambi in più ruoli come quasi tutti i protagonisti) e scoprirà dopo una mangiata di pesce i piaceri della carne in compagnia delle colorite signorine scosciate chiuse in svolazzanti e trasparenti vestagliette: la bolognese di Lucia Fossi, la Lulu di Ramona Polizzi, la tedesca di Vittoria Scuderi, l’Iris di Anita Indigeno, comandate a bacchetta dalla rigida maitresse Flora di Debora Bernardi, pronta a prendersi cura, finita la loro “quindicina”, di altrettante “picciotte” che arriveranno da altre città. L’opera di Camilleri, in parte autobiografica, sembra un romanzo di formazione, dove i diciottenni di quel tempo incontravano i personaggi più bislacchi, come l’asciutto anziano Cavaliere Lardera di Tuccio Musumeci, i cui aggettivi per definire la sua bravura non finirebbero mai, un habitué di quel luogo dove si sente di casa e che ad un tratto, per incanto, riacquista la sua virilità sopita dopo un pauroso bombardamento. Siamo infatti negli anni quaranta, in mezzo al secondo conflitto mondiale, in cui il corpo ferito d’un soldato americano appare agli occhi d’una di quelle donnine un angelo caduto dal cielo di cui prendersi cura e dove vi compare pure la “puttana comunista” Tatiana, con tanto di falce e martello sul suo sesso, che collabora con la resistenza partigiana e c’è pure un tale Giugiù che innamoratosi di Lulu vuole tenersela tutta per sé per un mese pagando una cifra enorme come sei mila lire di allora. Da quel pianoforte si diffondono canzoni del tipo “op-op-op trotta cavallino” o “dammi un bacio e ti dico di sì” che allontanano per pochi momenti l’urlo delle sirene, sino a quando nel finale si capisce che la pensione Eva è stata rasa al suolo, chiudendo quei terribili anni, forse soltanto sognati. Lo spettacolo è divertente anche se si tinge di nostalgia, coinvolge gli spettatori del Teatro Brancati di Catania, spesso colti ad applaudire a scena aperta un grande attore come Tuccio Musumeci, vessillo del teatro di tradizione italiano.
Gigi Giacobbe